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Agentic AI, la tecnologia (quasi) sconosciuta

L’Italia affronta da tempo un problema strutturale: la crescita della produttività che ristagna. Non bastano nuovi investimenti né slogan sulla digitalizzazione: per dare una vera scossa all’economia serve una reinvenzione profonda dei processi aziendali, non solo l’adozione di tecnologie di moda. Recentemente, uno studio congiunto di Boston Consulting Group (BCG) e MIT Sloan Management Review (l’edizione italiana è pubblicata dalla casa editrice ESTE, editore anche del nostro quotidiano) ha lanciato un avvertimento potente: l’agentic AI non è semplicemente un nuovo strumento, ma può diventare un vero e proprio ‘collaboratore’ (almeno così la pensa il 76% dei dirigenti coinvolti nello studio). Per chi ancora non ne avesse sentito parlare, gli agentic AI sono i sistemi capaci di pianificare, agire e apprendere in autonomia.

Questa percezione non è un dettaglio semantico: ha conseguenze profonde su come le organizzazioni strutturano il lavoro, le risorse umane e la governance. In Italia, dove spesso il problema non è tanto la carenza di dati o di software, quanto un impasto di burocrazia, cultura aziendale conservatrice e scarsa formazione digitale, l’indicazione che arriva dallo studio risuona come un campanello d’allarme.

L’AI c’è, ma se le aziende non riorganizzano ruoli, processi e competenze, l’effetto potrà essere limitato o addirittura controproducente. Le aziende che investono in agentic AI rischiano di fallire se limitano la tecnologia alle vecchie dinamiche: “Mettere a forza l’AI in processi preesistenti è un errore, serve ripensare i flussi di lavoro fin dalle fondamenta”, avverte in una nota Shervin Khodabandeh, Managing Director di BCG.

Un futuro che cambia anche l’organizzazione

I dati del report BCG- MIT Sloan Management Review mostrano che molte imprese non sono preparate a questa rivoluzione. Solo una parte ha ristrutturato il proprio modello operativo, la governance o i piani di investimento per abbracciare davvero l’agentic AI. Secondo lo studio: il 58% dei leader AI prevede di cambiare le strutture di governance entro tre anni, con un aumento della partecipazione dell’AI nelle decisioni. Il 43% pensa di assumere più generalisti rispetto a specialisti, ridurre i livelli di management medio, diminuire i ruoli entry-level. In molti casi, i dipendenti riferiscono un miglioramento della soddisfazione lavorativa grazie all’uso dell’agentic AI, il che suggerisce che l’IA non è vista solo come una minaccia, ma come un supporto.

Se in alcune realtà globali la trasformazione può partire da un uso ‘pilota’ dell’agentic AI, in Italia c’è il rischio che tutto resti nella sperimentazione senza una visione strategica. Ed è qui, allora, che le imprese devono chiedersi: siamo pronte a rivedere l’organizzazione del lavoro? L’adozione dell’agentic AI richiede non solo automazione, ma anche un ripensamento di ruoli, reporting, responsabilità.

Inoltre: abbiamo le competenze giuste? Non basta la formazione tecnica sull’AI: servono competenze manageriali nuove, capacità di orchestrare l’interazione con sistemi autonomi, cultura della sperimentazione. Infine: siamo disposti ad assumere il rischio organizzativo? Innovare significa anche accettare che i processi non saranno perfetti fin da subito, che occorrerà iterare e fallire in parte per imparare.

In un contesto di produttività stagnante, la tecnologia può essere uno dei motori della ripresa. Ma l’agentic AI, se non abbinata a un rinnovamento dei processi e a un cambiamento culturale, rischia di essere un esercizio di stile, piuttosto che una leva strutturale di crescita. L’Italia ha un’opportunità: non inseguire solo l’adozione, ma guidare la trasformazione, disegnare modelli di lavoro che integrino l’autonomia dell’AI con la centralità del capitale umano, e costruire un ecosistema in cui l’innovazione non resti isolata, ma si diffonda dentro la catena del valore. Senza questa reinvenzione, rischiamo di rimanere indietro, ancora una volta, non per mancanza di tecnologie, ma per incapacità di ripensare davvero il modo in cui lavoriamo.

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Proteggere le aziende nell’era delle minacce digitali avanzate

Come ci si difende dalle minacce digitali avanzate? Quali sono le tecnologie che servono alle aziende? E quali i comportamenti da seguire per limitare le azioni fraudolente? Per rispondere alle domande, Parole di Management propone una tavola rotonda mercoledì 10 dicembre 2025 (dalle 10 alle 13 presso la sede del quotidiano), riservando la partecipazione agli esperti della materia: i partecipanti sono chiamati a confrontarsi sull’evoluzione delle minacce e a proporre soluzioni concrete di difesa dei nuovi perimetri aziendali.

La sintesi dei contenuti della tavola rotonda sarà oggetto di uno Speciale di Parole di Management.

Per candidarsi a partecipare alla tavola rotonda, scrivere a Giulia Zicconi (giulia.zicconi@este.it). La redazione valuterà le candidature per assicurare la buona riuscita dell’iniziativa editoriale.

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C’è chi piange e chi lavora: da che parte stai?

È un’economia in recessione quella italiana. Non è una novità, ma in pochi sembrano esserne accorti. Tra chi lo ha capito – e cerca di suonare la sveglia – ci sono Giorgio Merli (ex Country Leader di IBM Business Consulting Services) e Pietro Senaldi (Condirettore di Libero), autori del libro Sveglia! (Marsilio Editori, 2025). Nelle loro riflessioni, i due autori hanno scelto di partire dai fatti, come il dato di crescita del Pil reale che dal 1999 a oggi è cresciuto appena del 9%, mentre altri Paesi sono cresciti a doppia cifra: +30% la Francia, +150% gli Usa e +500% la Cina. A finire sotto le accuse di Merli e Senaldi sono in particolare i luoghi comuni, come la polemica degli stipendi troppo bassi: tutti ce ne lamentiamo, ma chi si chiede davvero se il proprio lavoro generi abbastanza valore? I due si scagliano anche contro il ‘piccolo e bello’, per ricordare ai lettori che innovazione e crescita sono alimentate dalle grandi imprese e non dalle micro…

Che cosa stiamo quindi facendo per svegliarci? Chi non cambia per scelta – è il monito di Merli e Senaldi – sarà presto costretto a farlo a seguito degli eventi. Del tema ne parliamo nella puntata di venerdì 28 novembre 2025 di PdM Talk, il talk show settimanale di Parole di Management che va in onda in diretta streaming ogni venerdì dalle 12 alle 13 (la diretta è visibile sul sito del quotidiano, sul canale YouTube di Parole di Management e sul profilo ESTE di LinkedIn).

In ogni puntata i rappresentanti della grande community di imprenditori e manager della casa editrice ESTE e di Parole di Management si confrontano sulle questioni di attualità – dagli avvenimenti della politica alle mutazioni della società – che hanno un interesse per chi gestisce e vive le organizzazioni.

Gli ospiti della puntata del 28 novembre 2025:

Giorgio Merli, ex Country Leader di IBM Business Consulting Services

Pietro Senaldi, Codirettore di Libero

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Istituti tecnici quinquennali, serve la riforma (con urgenza)

Lo scriviamo da anni che serve una riforma dell’istruzione tecnica secondaria, ma è stata rallentata dalla filiera formativa del 4+2. Stiamo ora arrivando con grave ritardo alla vera riforma, che, integrata in un forte sistema istituzionale assieme all’istruzione terziaria, avrebbe dovuto costituire la nuova architettura di un sistema scolastico di eccellenza. Così non è stato previsto. Si è preferito procedere con soluzioni diverse, che hanno bisogno continuamente di essere commentate, per rappresentare una visione alternativa a quanto viene comunicato.

Anzitutto, per ragioni di chiarezza, dobbiamo intenderci su un punto importante. Se stiamo al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), per la Commissione europea la riforma attesa –  che concorrerà all’erogazione della quota di finanziamento prevista – è quella dell’istruzione tecnica quinquennale avviata dal Governo che ha preceduto quello attualmente in carica. Solo successivamente, l’apparato normativo è stato integrato con la filiera tecnologica professionale quadriennale della cosiddetta 4+2, la quale tuttavia, per la medesima Commissione europea, non è da considerare sostitutiva della riforma originaria dell’istruzione tecnica quinquennale programmata nel Pnrr.

La filiera formativa del 4+2, che dal 2025-26 diventerà ordinamentale, per quanto abbiamo già scritto è prevalentemente un accorciamento dei programmi di studio da cinque a quattro anni. E, “il rinnovo del programma, puntando sulla qualità e sul potenziamento delle materie base italiano, inglese e matematica, creando una inversione di tendenza positivo”, come ha affermato Giuseppe Valditara, Ministro dell’Istruzione e del Merito in una sua dichiarazione, non è nulla di nuovo, ma rientra nelle ordinarie azioni di manutenzione dei programmi scolastici di tutti i percorsi ordinamentali.

Non è una buona ragione neppure affermare che le prove Invalsi indichino che in Lombardia i percorsi della formazione professionale quadriennale abbiano prodotto, nelle discipline fondamentali, risultati migliori degli omologhi percorsi quinquennali statali. Ciò, per due motivi: il primo perché si confrontano dati rilevati da un campione di studenti irrisorio, mentre il confronto lo si dovrebbe fare a livello nazionale e non solo sulla Lombardia; il secondo perché con tale affermazione si corre il rischio di delegittimare i percorsi quinquennali statali, che accolgono il 98% degli studenti dell’istruzione tecnica e professionale e, dunque, in questo modo certamente non si incentiva l’attrattività verso gli istituti tecnici, di cui invece ne abbiamo un grande e urgente bisogno.

I paragoni fuorvianti con la formazione estera

Occorre anche commentare il paragone che si fa con i sistemi scolastici esteri, quando si afferma che “il modello a quattro anni mostra performance superiori nei test Pisa (acronimo di Programme for international student assessment, che valuta le competenze degli studenti in lettura, matematica e scienze ogni tre anni, Ndr) rispetto a quelli italiani”. Innanzitutto, nel confronto tra due sistemi – qualunque essi siano – occorre tener conto di tutte le loro ‘dimensioni’: è come se confrontassimo due grandezze vettoriali, solo attraverso la loro dimensione scalare.

I sistemi scolastici esteri, quelli con cui ha senso confrontarsi, sono prima di tutto performanti, ossia nelle classifiche Ocse per l’education sono in ottime posizioni, mentre il nostro Paese non lo è. E i loro percorsi tecnici e professionali non sono percorsi di serie B o di serie C, mentre il nostro sistema scolastico, proprio nell’ultimo Rapporto del Censis, è stato definito “la fabbrica degli ignoranti”, con una percentuale elevatissima di studenti che non raggiungono gli obiettivi minimi di apprendimento in italiano, matematica e inglese. È ragionevole affermare che, per migliorare tali esiti non ci sarebbe bisogno di nessuna riforma, basterebbe invece far funzionare bene la scuola, certamente non con una soluzione che consente di acquisire il diploma riducendo di un anno il percorso di studi. Le riforme servono a ben altro scopo.

 Che “le imprese italiane non trovano giovani con le competenze necessarie, rischiando di perdere competitività”, come ha affermato Valditara, lo sappiamo da tempo, ma la soluzione non è la filiera formativa 4+2. Ho scritto appositamente un libro e continuo a scrivere articoli per allargare gli orizzonti su questi argomenti confinati in un perimetro molto ristretto, e che avrebbero bisogno di un grande dibattito. E la ragione per cui la 4+2 non può essere la vera sfida della scuola del futuro, è anche conseguente a un fatto concettuale tecnico molto semplice: la sua architettura formativa non trova una collocazione ragionevole nel perimetro delle architetture di un sistema di istruzione tecnica, che deve essere coerente con gli insiemi di saperi e di cultura che attengono alle tre classificazioni dedotte dal quadro delle professioni tecniche.

Il flusso logico – da tenere sempre presente – che dovrebbe costituire una delle dimensioni del capitolato di riforma, collega il quadro del sistema economico, in tutte le sue articolazioni, con il quadro delle aree delle professioni in tutte le loro dimensioni, per giungere al quadro dei percorsi formativi con tutte le loro architetture. Dentro questi perimetri di rappresentazione sistemica, che sono essenziali per l’individuazione dei saperi e dei contenuti, la filiera formativa 4+2 mal si inserisce, se non come una opzione di un intervento di formazione, o addestramento, professionale.

Senza riforma la produttività resta al palo

Non passa giorno che non si lanci l’allarme sul peggiorare di alcuni indicatori economici e sociali che nel post Pnrr – quando verranno a mancare i relativi finanziamenti straordinari – assumerà un rilievo sempre più preoccupante. Ne ha parlato anche una persona autorevole, Salvatore Rossi, già Direttore Generale di Bankitalia, che in una sua intervista a La Repubblica ha descritto un quadro strutturalmente debole per la crescita italiana.

Secondo le previsioni della Commissione europea, l’Italia crescerà meno della media dell’Unione europea, perché le nostre criticità – come spesso abbiamo detto – sono di natura strutturale quindi permanente e non congiunturali ossia legate al ciclo economico. Anche secondo l’autorevole economista, la causa – come rilevato da altri esperti e oggettivamente riscontrata anche dai numeri – risiede nella dinamica della produttività. Lo abbiamo detto più volte argomentando sull’elevato valore del costo unitario per prodotto nonostante i salari bassi.

La mancata crescita della produttività del lavoro e del capitale riduce gli spazi per l’aumento dei redditi e per gli investimenti in innovazione, i due pilastri per sostenere la competitività. Senza produttività non si cresce, non si innova, non si aumentano gli stipendi, non si migliora l’employability, non si riduce il precariato e si mette a rischio il welfare. Ed è la ragione per cui abbiamo bisogno di una istruzione tecnica di eccellenza. È ampiamente scritto nel mio saggio Ricostruire l’istruzione tecnica.

Senza saperi non si costruiscono le competenze

Come ha scritto anche il Cnel nel suo Rapporto recente sulla produttività, l’analisi di Rossi individua nell’assetto del sistema produttivo italiano uno dei principali fattori di freno. Il Paese è infatti caratterizzato da una prevalenza di microimprese e piccole imprese. Anche i gruppi di maggiore rilievo – nella descrizione dell’economista – operano spesso con scale operative ridotte in confronto ai pari settore di altri Stati membri.

La struttura frammentata del tessuto imprenditoriale italiano penalizza i livelli di produttività e la capacità di innovare e rende più difficile competere su mercati globali e innovativi. Anche gli investimenti in macchinari, infrastrutture digitali e innovazione risultano insufficienti a colmare il divario con i principali partner europei. La trasformazione digitale del sistema produttivo procede con velocità eterogenea, con differenze marcate tra settori e territori. È scritto bene nel libro Trasformazione aziendale di Bruno Carminati, Emanuele Farinella, Fabio Gnoato (Guerini Next, 2023).

Un ulteriore elemento critico – che è poi il focus principale dei nostri interventi – riguarda i ritardi nel sistema di istruzione, ovviamente riferendosi prioritariamente all’istruzione tecnica. Detto in altro modo: manca la conoscenza di nuovi saperi e quindi l’impossibilità di costruire le competenze. Ma, purtroppo, manca anche la conoscenza dell’importanza strategica del sistema economico industriale e di come costruire una riforma adeguata dell’istruzione tecnica che sia funzionale alla sostenibilità e crescita economica e sociale, e attrattiva per i nostri giovani.

La necessità di un capitolato per la riforma

L’intervento riformatore degli istituti quinquennali è pur sempre un processo di cambiamento e come tale va gestito applicando correttamente le sue giuste grammatiche. Ci sarebbe bisogno di una preliminare explicatio terminorum per derimere una confusione concettuale e terminologica che ci si trascina da tempo e che inquina le riforme.

Poi, per i vincoli di sistema che si dovranno affrontare, che costringono a scegliere soltanto un approccio bottom up, occorrerebbe anche avere, ai fini di un adeguamento e aggiornamento dei contenuti della formazione, una buona dose di ‘strabismo’, ossia la capacità di integrare la verticalità degli indirizzi scolastici attuali con l’orizzontalità e quindi la trasversalità degli ambiti applicativi dei medesimi contenuti. Ciò costringerà a ricercare nelle due dimensioni la catena del valore, quella da cui estrarre le informazioni per la costruzione dei contenuti. In questi ambiti organizzativi e lavorativi si individuano le zone nelle quali si deve costruire il protagonismo dei giovani aspiranti tecnici. Queste procedure devono poi fare emergere un’alta attrazione verso il mondo delle professioni tecniche e dell’istruzione tecnica.

Non è sufficiente disporre della miglior riforma, se questa non ha poi un efficace sistema di attrazione che attiri tutti i portatori di interesse. Ecco perché insisto sulla necessità che la riforma dell’istruzione tecnica quinquennale, sia pur nelle ristrettezze in cui è costretta, sia guidata da un chiaro capitolato, inteso come quadro di riferimento concettuale in base al quale progettare, secondo un preciso e articolato processo logico, le linee di intervento.

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L’economia che fa il bene mette al centro le persone

L’economia che fa il bene (e non solo che fa bene). Così Avvenire ha inaugurato la terza edizione del convegno dedicato a imprese, persone e comunità capaci di generare valore sociale. Un appuntamento ospitato dal Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, che ha messo al centro il senso del lavoro, della vita e del tempo, ingredienti spesso dati per scontati, ma che oggi richiedono uno sguardo nuovo.

Il valore di un’economia che non consuma, ma rigenera. Viviamo immersi in un sistema economico in cui quasi tutto diventa merce. Lo ha ricordato anche Elena Granata, Professoressa Associata presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, sottolineando come persino il “tempo di permanenza” in un bar sia monetizzato (e monetizzabile).

La sfida è quindi rovesciare la prospettiva: non pensare all’economia come un male necessario, ma come uno strumento capace di portare benessere, comunità, qualità del vivere. Da qui la scelta di articolare il convegno in tre momenti: benessere in azienda; Terzo settore; abitare. Tre ambiti che, più degli altri, mostrano come la creazione di valore sociale possa diventare motore dello sviluppo economico.

Il benessere da costo a investimento

Uno dei filoni più stimolanti dell’incontro promosso dal quotidiano ha riguardato il welfare aziendale. L’idea di fondo è semplice, ma tutt’altro che scontata: il benessere del lavoratore si ripercuote sull’azienda. Una verità che assume un peso ancora maggiore guardando al futuro: entro il 2050, infatti, perderemo una parte significativa della forza lavoro. Le imprese che sapranno attrarre e trattenere talenti saranno quelle capaci di creare ambienti in cui si sta bene.

Elis, realtà che da anni forma e accompagna le persone nel mondo del lavoro, ha portato, attraverso la voce di Valeria Bonilauri, Responsabile Innovazione e Sviluppo, una testimonianza centrale: essere un ponte tra le esigenze delle aziende e i bisogni dei lavoratori significa riconoscere che la genitorialità non è un ostacolo, ma una risorsa di competenze.

Eppure, proprio nella genitorialità affiorano molte delle criticità culturali ancora presenti nelle imprese: lo scollamento tra vita e lavoro; la difficoltà a riconoscere le competenze che si sviluppano come madri e padri; la scarsa autostima che porta, soprattutto le donne, a non candidarsi per percorsi di crescita. Cambiare sguardo, ha detto Bonilauri, è un percorso: significa smettere di vedere ‘bisogni’ e iniziare a vedere ‘portatori di sogni’.

Gian Luca Galletti, Presidente dell’Unione cristiana imprenditori dirigenti (Ucid) ha aggiunto un ulteriore tassello: non bisogna cercare il problema fuori, ma dentro l’impresa stessa. Il clima aziendale, la qualità delle relazioni, la dignità del lavoro sono fattori decisivi per la produttività. “Se sto meglio al lavoro, sto meglio anche nella vita”: una verità semplice che spesso dimentichiamo. Fare economia che fa il bene significa innanzitutto seminare cultura, creare condizioni in cui la persona possa fiorire. Perché, quando l’obiettivo sono le persone, la produttività non può che crescere.

Includere per crescere

Il convegno di Avvenire ha toccato anche il tema dei fondi e delle risorse del Terzo settore, evidenziando come l’inclusione non sia solo un dovere sociale, ma anche una strategia efficace per migliorare i risultati economici. Includere significa aumentare la produttività, perché una comunità più equa e più forte sostiene meglio le imprese, le città, le famiglie. Da qui la scelta di concentrarsi anche sugli ambienti.

Come ha sottolineato l’intervento di Giorgio Gobbi, Direttore Regionale della Banca d’Italia per la Lombardia, le città oggi sono profondamente legate alle nuove modalità di lavoro: Smart working, mobilità, riqualificazione degli spazi cambiano il modo in cui viviamo e ci muoviamo, mentre Fabio Carlozzo, Amministratore Delegato di Redo Sgr ha ribadito l’urgenza di riportare persone e servizi nelle zone che ne hanno più bisogno, ridando vita a quartieri svuotati o abbandonati.

L’abitare non è più solo una questione di metri quadrati, ma di ecosistemi sociali, servizi, qualità del vivere. L’incontro ha mostrato che un’altra economia è non solo possibile, ma già in atto: un’economia genera valore perché mette al centro le persone; crea comunità; riconosce il lavoro come luogo di fioritura; restituisce senso al tempo; non misura tutto in termini di costo ma di futuro. Fare economia che fa il bene significa trasformare lo sguardo: dall’efficienza alla cura, dal profitto alla dignità, dall’individuo alla comunità. E questa trasformazione non è un’utopia, ma una strada che molte imprese, enti e territori hanno già iniziato a percorrere.

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Il futuro del lavoro non è un algoritmo

Cresce l’impopolarità del lavoro. Se ne parla perché non ce n’è abbastanza, o perché ce n’è troppo; perché arricchisce pochi, o perché logora molti. Ma raramente ci si interroga su cosa significhi, davvero, lavorare bene. Quando si discute di qualità del lavoro, si è soliti fermarsi quasi sempre al tema della conciliazione tra vita privata e aziendale – come se bastasse bilanciare gli orari per restituire dignità all’impegno quotidiano. Giovanni Costa, Professore emerito di Organizzazione Aziendale e di Strategia d’Impresa all’Università di Padova, nel suo nuovo libro Provate voi a lavorare. Il lavoro nell’era dell’AI (Post Editori, 2025), invita invece a uno sguardo più profondo: la qualità non è un privilegio concesso da un datore illuminato, ma una costruzione collettiva che nasce dal dialogo tra persone, manager e imprenditori.

In un tempo in cui il lavoro ha perso la sua gravosità materiale e si prepara a perdere molte delle sue funzioni ripetitive, si apre lo spazio per riscoprirne la dimensione più creativa e propositiva. Ma serve coraggio. Soprattutto per andare oltre gli slogan, come smart working, diversity & inclusion, digitalizzazione, solo per citare alcuni segnalati da Costa – e affrontare la sostanza del lavoro: le relazioni, le competenze, il senso condiviso di ciò che si fa.

Nei primi capitoli, Costa esplora proprio questa sostanza: la qualità del lavoro e delle interazioni che lo animano, la connessione lungo la filiera, il ruolo dei leader e il valore reale della retribuzione, letta come forma di riconoscimento e partecipazione. Poi il discorso si apre alle prospettive dell’Intelligenza Artificiale (AI), che promette di trasformare il lavoro in modo radicale. In questo scenario, la vera sfida non è adattarsi alla tecnologia, ma imparare a domandarsi quali condizioni rendano ancora possibile un lavoro che resti umano.

I giovani devono riscoprire la potenza delle idee

La tecnologia non ha morale né direzione: siamo noi a decidere se usarla per emanciparci o per controllarci. Costa mette in guardia da due visioni opposte e ingannevoli: quella catastrofista, che teme la fine del lavoro umano, e quella tecno-ottimista, che sogna un futuro interamente automatizzato. La verità è che l’AI sottrae, ma non per cancellare l’umano, ma per liberare tempo e spazio per restituirgli il suo tratto più distintivo, cioè il giudizio, la creatività, la capacità di discernere.

È qui che il discorso si intreccia con le nuove generazioni. Costa si rivolge ai giovani con un monito chiaro: un curriculum racconta il passato, ma sono le idee a rappresentare il futuro. E oggi, nell’era dell’AI, le idee stesse diventano la vera forma di capitale, ciò che distingue l’apporto umano da quello delle macchine. Eppure, mentre la richiesta di innovazione cresce, le aziende si trovano ad affrontare un turnover crescente e una difficoltà crescente nel trattenere i talenti: chi entra, spesso, riparte, chi resta fatica a trovare motivazione. Non è solo un problema di numeri, ma di senso. Se il lavoro non offre prospettiva, non trattiene. E quando la fuga dei giovani incontra l’inerzia organizzativa, l’impresa rischia di perdere la propria linfa vitale.

Provate voi a lavorare è dunque un libro sulla responsabilità e sul coraggio di restare umani nel cambiamento. Costa non propone soluzioni facili, ma una direzione: comprendere, metabolizzare e usare la tecnologia con intelligenza umana. Perché, se il lavoro è destinato a cambiare, solo la nostra consapevolezza potrà decidere se resterà – o no – un luogo di libertà.

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Il lavoro decente come antidoto alla società individualista

L’8 novembre 2025 la Chiesa ha celebrato il Giubileo del Lavoro. “Deve essere una fonte di speranza e vita, che permetta di esprimere la creatività dell’individuo e la sua capacità di fare del bene”, ha detto Papa Leone XIV ai pellegrini nel corso dell’udienza indetta per l’occasione. Parole che rievocano il valore della principale attività umana, spesso calpestato, come talvolta ricordano dati economici e cronaca.

Disoccupazione giovanile, bassi salari, precarietà: i problemi nel mondo del lavoro – in Italia e non solo – non mancano di certo. A causarli è forse una visione erronea. “Oggi il concetto di ‘lavoro giusto’ ha messo in ombra un’altra dimensione”, sottolinea Stefano Zamagni, classe 1943. Tra i ruoli che ha ricoperto c’è quello di Presidente dell’Agenzia per il Terzo settore e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Oggi è docente di Economia Politica all’Università di Bologna, tuttora in servizio nonostante la pensione.

Qual è l’altro aspetto del lavoro che stiamo perdendo?

Ci sono due dimensioni, l’estrattiva e l’espressiva. La prima dice che chi lavora ottiene un potere d’acquisto attraverso cui soddisfare le proprie necessità. A questa fa riscontro il concetto di ‘lavoro giusto’, che consente alle persone appunto di sostentarsi. Ma c’è un’altra nozione che sta sfumando, ed è quella di lavoro decente.

Un concetto che sembra aleggiare anche nelle parole del Papa. Che cosa s’intende?

Di mezzo c’è la dimensione espressiva del lavoro. Noi umani esprimiamo i nostri talenti con il lavoro e per mezzo del lavoro. È questo il ‘lavoro decente’, idea riconosciuta anche dall’Organizzazione mondiale del lavoro. Ma in Italia non se ne parla mai, è un limite culturale anche dei movimenti sindacali e delle imprese quello di pensare solo alla parte remunerativa.

Che in Italia continua a essere una questione irrisolta perché gli stipendi sono fermi…

Una cosa non esclude l’altra. Io ti pago alla fine del mese, ma non basta. Perché è un’umiliazione se poi non consento la tua fioritura. È necessario voltare pagina su questo piano. Do per scontato che il lavoro debba essere giusto. Specie in passato si insisteva su questo e penso all’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII del 1890: ma allora esistevano ancora forme di schiavitù ignobili. I salari sono repressi e su quel fronte la battaglia deve continuare. Però, proseguire solo in quella direzione non può che sollevare perplessità.

Viene da pensare anche al tema sicurezza: di recente a Roma c’è stata l’ennesima morte bianca…

La questione suscita vergogna perché oggi ci sarebbe il modo di evitare certe tragedie. Non come una volta. La memoria va alla costruzione del Canale di Suez, durante la quale morirono milioni di operai. Le vicende recenti fanno tornare ancora una volta a quanto già detto: la persona è umiliata, non ne è valorizzato il talento. E così si lascia andare.

Ci spieghi meglio.

Se c’è l’obbligo di mettere il casco, faccio questo esempio, il lavoratore non lo rispetta. Non lo indossa perché è avvilito, sente di vivere una condizione di solitudine esistenziale. Come quelli che non si curano pur avendo un sistema sanitario che potrebbe assisterli, così il lavoratore frustrato – e sottolineo di nuovo il concetto di lavoro decente – tende a mettere in sottordine queste precauzioni. Quando si perde il senso della vita non si dà rilevanza a ciò che merita attenzione.

Non crede che sia tutta la società ad aver perso di vista i valori essenziali?

Circola una cultura che aderisce a un materialismo diverso da quello storico marxiano, di tipo neoliberista che è peggiore di quello tradizionale. La gente non lo sa, ma il neoliberismo è una deviazione del liberalismo, l’esaltazione di tutto ciò che è materialistico. Il pericolo sta nella sottomissione della dimensione spirituale dell’essere umano. Che non ha solo a che vedere con la religione, perché esiste anche in chi non ha fede. Papa Francesco parlava di “scarti umani” in riferimento ai più deboli e agli emarginati. Il senso era che l’uomo non può essere ridotto solo a materia, buttata via come un pezzo di carne avariato.

I giovani sembrano risentirne particolarmente: perché sono centinaia di migliaia quelli che abbandonano l’Italia e vanno in cerca di fortuna altrove?

Bisognerebbe aprire un dibattito sulle cause profonde del perché questo avviene. Non basta descrivere il disagio giovanile. Troppi intellettuali superficiali si limitano a quello. C’è un consumo di psicofarmaci raddoppiato tra i giovani. Dalla fine del secondo scorso si è diffuso il singolarismo, nato in California come estremizzazione dell’individualismo, che nasce con la Rivoluzione francese e l’Illuminismo. Ed è opposto al comunitarismo.

I giovani se ne fanno portavoce?

Per loro significa recidere ogni legame con un gruppo a cui si è appartenuto, famiglia e affetti. E si pensa che così si afferma una identità e si valorizza il potenziale di vita. Ma attenzione: l’individuo è al centro in quanto parte di qualcosa e membro di qualche comunità di riferimento. Si fa credere che ognuno sia artefice del proprio destino, quando invece nessuno può farcela da solo.

Qual è il messaggio da dare?

Gran parte dei bisogni si devono soddisfare nella relazione interpersonale. Lo dico ai miei studenti: devono aiutarsi l’un l’altro. Al contrario di quello che si propina oggi quando si diffonde la convinzione che ciò di cui si ha bisogno si compra sul mercato. Così ci si deprime, c’è chi finisce nella droga, chi nella violenza. Sono gli effetti della cultura singolarista.

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Sopravvivere alle crisi diventando aziende imprevedibili

È un contesto di crescente incertezza quello che stiamo affrontando. Gli esperti l’hanno definito di “permacrisi”, cioè di crisi senza fine. D’altra parte gli esempi sono numerosi: covid, crisi energetica, discontinuità nelle catene del valore, tensioni geopolitiche, dazi protezionistici… Come possono affrontare questo scenario le aziende? Ci sono imprese che si sono fermate a osservare e hanno scelto l’immobilismo nella speranza di un ritorno alla normalità. Ma ormai dovrebbe essere chiaro che la realtà nella quale viviamo – caratterizzata appunto dalle crisi – è diventata il new normal. E dunque, è necessario raggiungere questa consapevolezza e agire di conseguenza.

Le aziende devono crearsi una posizione solida in questo contesto sempre più complicato”, è stato l’invito di Vincenzo Natile, Partner di EIM Italia, con cui ha aperto il workshop promosso dalla società specializzata nel supporto per la gestione del cambiamento e dei processi di trasformazione, dal titolo “Reagire all’incertezza: strategie aziendali tra comprensione del contesto (capire), velocità decisionale (decidere) e flessibilità operativa (agire)”. Tra gli ospiti dell’iniziativa – alla quale Parole di Management è stata invitata a partecipare in via esclusiva, insieme con numerosi clienti di EIM – si sono confrontati: Alberto Gennarini (Vitale & Co), Riccardo Garrè (Impresa Pizzarotti & C.), Lucia Morselli (Pininfarina) e Matteo Suma (ABB).

Adattare la strategia al contesto di crisi

Per comprendere quali siano gli atteggiamenti delle aziende italiane di fronte a questo scenario di permacrisi, negli scorsi mesi EIM ha aperto un sondaggio all’interno della propria community i cui risultati sono stati presentati all’inizio dell’incontro (i due terzi del campione sono stati rappresentati dalla Manifattura, con il 57% delle imprese con un fatturato inferiore a 100 milioni di euro, e i rispondenti sono stati per l’80% imprenditori e CEO).

Dalle risposte è emerso che il 60% delle aziende ha rivisto il proprio piano strategico negli ultimi 12 mesi, ma addirittura il 23% non ha rimesso mano alla strategia (tra le ipotetiche motivazioni di questo atteggiamento, è emersa la difficoltà di affrontare il cambiamento). Laddove un cambiamento c’è stato, in particolare, si è trattato della flessibilità organizzativa, seguita dalla spinta all’internazionalizzazione, alla digitalizzazione, alle alleanze strategiche, all’innovazione di prodotto, alla revisione della Supply chain (il 45% del campione non ha fatto alcun cambiamento) e alla formazione del capitale umano (il 56% ha attuato una riduzione o una riorganizzazione dell’assetto organizzativo).

Tra le soluzioni proposte per navigare l’incertezza, è emersa la comprensione in tempo reale dei mercati e la capacità di leggere i segnali deboli per comprendere i reali movimenti dei clienti e dei consumatori. Dalla ricerca EIM è emerso che il 62% delle aziende coinvolte utilizza i dati per le analisi, ma spesso facendo affidamento alle reti informali, ai clienti e ai partner. Più complessa, invece, l’integrazione dei dati tra funzioni come Operations, Vendite e Marketing: il 41% del campione lo fa, ma solo “parzialmente”, e appena il 21% ha ammesso di aver strutturato il processo. Rispetto all’adozione di modelli di business più flessibili e resilienti – strategia ipotizzata per concretizzare la flessibilità operativa – il campione ritiene di avere una struttura organizzativa che risponde a questa caratteristica (70%).

Anticipare gli eventi piuttosto che reagire

Come già detto, il periodo storico è caratterizzato dalle crisi (che per la verità ci sono sempre state), ma c’è chi questo aspetto lo considera un’occasione, perché rende il momento ricco di opportunità trovandosi al di fuori delle  ‘regole’ definite. È quindi importante saper  accettare il ‘non prevedibile’ che, di conseguenza, richiede schemi non predefiniti per essere affrontato.

Per farlo c’è chi ha suggerito di imparare a leggere il mercato in un’ottica diversa da quella finora usata e in modo differente da come le aziende hanno imparato a fare dalle esperienze passate. Di certo l’attività di Risk management è considerata una buona pratica per pianificare una risposta strutturata alle inevitabili crisi, ma più che reagire serve anticipare gli scossoni del mercato.

A complicare il quadro c’è poi la tendenza, ormai trentennale, della finanziarizzazione dell’industria, che oggi vale il 50% del mercato, tanto che i settori più attenzionati sono solo quelli in crescita e che offrono un’ampia marginalità, a discapito degli altri che avrebbero bisogno di investimenti a medio-lungo termine per generare valore. Non a caso EIM è solita suggerire questo adagio: “Gestisci l’azienda come se non la dovessi mai vendere”.

Cosa serve oggi? Organizzazioni aperte e leggere

Cambiare il modello organizzativo può essere una soluzione per affrontare le crisi. In particolare, la proposta emersa dal confronto va nella direzione delle organizzazioni aperte, non solo nei confronti dei clienti e dei fornitori – in teoria già parte del network dell’azienda – ma di tutto l’ecosistema esterno, con ‘sensori’ (non solo tecnologici, ma anche umani) in grado di ‘catturare’ le informazioni. Inoltre, sono necessarie strutture organizzative leggere, con capi al vertice che devono ‘cedere’ parte del loro potere, abbandonando gli assetti burocratici che frenano le iniziative: lo schema top-down deve lasciare spazio a quello bottom-up, perché sono le figure più operative quelle che possono recepire i segnali più deboli. Davanti all’imprevedibile le aziende devono essere… imprevedibili, è stato l’invito dei relatori durante il dibattito.

A proposito di ascolto, il suggerimento è di capire come agiscono i competitor e impostare una strategia per raccogliere i dati, adeguando il business model di conseguenza. Successivamente, è poi fondamentale agire rispetto alla velocità di esecuzione e quindi rendere rapido il processo decisionale. Come? Per esempio, insegnando al management che sbagliare è normale e se il sistema di decisioni è veloce c’è tutto il tempo peri fare le opportune correzioni. “Gioca male, ma fallo velocemente” è stato l’invito proposto.

Tra i limiti c’è però l’atteggiamento di alcuni imprenditori – soprattutto delle Piccole e medie imprese (PMI) – che si circondano di persone senza le opportune competenze per fare da contraltare al capo azienda, se non etichettabili come ‘yes men’. Ecco perché, proprio in questo periodo turbolento, servono manager competenti con cui confrontarsi, non solo nei momenti di crisi. La ricetta ideale, dunque, è quella di affiancare agli imprenditori illuminati dei bravi manager. C’è quindi ancora bisogno di questi ultimi, anche se c’è chi predica che debbano assumere un atteggiamento più imprenditoriale. Sarà la stagione dei manager-imprenditori? La discussione rimane aperta.

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Il modello Montessori per i nuovi leader

Negli ultimi anni abbiamo riscoperto quanto la leadership efficace non sia solo una questione di strategia, ma di relazione, autonomia e fiducia. Eppure, più guardiamo ai modelli organizzativi moderni – dallo human-centered design al servant leadership fino alla learning organization – più ci accorgiamo che molte di queste idee erano già racchiuse, un secolo fa, nel pensiero di Maria Montessori.

Nata per rivoluzionare l’educazione dei bambini, la pedagogia montessoriana oggi trova riscontri sorprendenti anche nella gestione delle persone e nelle organizzazioni complesse. Diversi studi scientifici e manageriali ne confermano la validità, suggerendo che le aziende che adottano principi montessoriani migliorano benessere, autonomia e performance dei loro team.

Dall’autonomia al coinvolgimento

Per Montessori, la libertà di scelta e l’auto-direzione non sono anarchia, ma il terreno su cui cresce la responsabilità. Lo stesso vale nel lavoro: la Self determination theory dimostra che quando un’organizzazione sostiene l’autonomia, la competenza e le relazioni autentiche, la motivazione diventa più profonda e sostenibile. In termini pratici: dare alle persone obiettivi chiari, ma lasciarle libere nei modi di raggiungerli, aumenta l’energia, la creatività e l’adesione ai valori aziendali.

C’è poi l’ambiente. Nelle scuole Montessori, tutto è progettato per ‘insegnare da sé’: spazi ordinati, strumenti intuitivi, materiali auto-correttivi. È il concetto di ambiente preparato, che nel mondo del lavoro si traduce in processi visivi, strumenti semplici e contesti che non obbligano a chiedere continuamente permesso per agire. Le metodologie lean – dal visual management al sistema 5S – nascono su principi simili: quando il contesto è chiaro, le persone diventano più autonome e il management può limitarsi ad accompagnare, non a controllare.

Rispetto alla concentrazione, Montessori insisteva sui lunghi cicli di lavoro ininterrotto, in cui i bambini si immergono completamente in ciò che fanno. Oggi, la Psicologia del lavoro chiama questo stato flow: immersione totale, chiarezza degli obiettivi, feedback immediato. Le ricerche più recenti (si veda il caso di quelle di Fullagar e Kelloway, 2023) mostrano che il flow aumenta produttività e soddisfazione. In azienda, significa creare momenti protetti di concentrazione, senza meeting o notifiche, e assegnare sfide commisurate alle competenze.

Il manager come guida, non come capo

Nelle classi montessoriane, l’adulto non è un’autorità che impone, ma un osservatore che prepara, facilita e interviene solo quando serve. Questo ruolo si ritrova oggi nella leadership di servizio e nel coaching management: manager che si assumono la responsabilità dell’ambiente più che delle persone, creando le condizioni perché ognuno dia il meglio di sé. Come scrive la ricercatrice Bennetts: “Montessori non insegna cosa fare, ma come essere leader”.

In merito all’errore, si ricordi che nei materiali Montessori, è parte del processo di apprendimento: ogni strumento è costruito per mostrare subito dove si sbaglia. In azienda, lo stesso principio si ritrova nella cultura del Kaizen e nella sicurezza psicologica studiata da Amy Edmondson (Harvard Business School). Quando le persone si sentono libere di segnalare un problema o sperimentare senza paura di punizioni, l’organizzazione impara più velocemente e innova di più.

L’apprendimento montessoriano avviene ‘insieme’: le classi Montessori, infatti, sono multi-età e i più grandi insegnano ai più piccoli, consolidando le proprie conoscenze mentre aiutano gli altri. È un modello straordinariamente moderno per l’impresa contemporanea: mentoring, peer learning, team cross-funzionali, comunità di pratica. Ogni persona è contemporaneamente apprendista e maestro.

Il framework Montessori per gestire le persone

Il parallelismo non è solo metaforico. Montessori offre una vera architettura di management centrata su fiducia, autonomia e apprendimento continuo. Un modello che possiamo chiamare ‘Montessori Leadership’ e che poggia su sei pilastri: autonomia come leva di responsabilità; ambiente chiaro e funzionale; tempo e concentrazione per il flow; manager come guida e osservatore; errore come occasione di miglioramento; apprendimento reciproco e comunità.

Forse la sfida più grande della leadership moderna non è imparare a ‘dirigere’ meglio, ma a educare l’ambiente e le persone a crescere insieme. Come diceva Maria Montessori: “La più grande testimonianza del successo di un insegnante è poter dire che i bambini stanno lavorando come se io non esistessi”. Lo stesso dovrebbe poter dire un grande leader.

Per approfondire: Ryan, R.M. e Deci, E.L. (2017), “Self-Determination Theory: Basic Psychological Needs” in Motivation, Development, and Wellness. Guilford Press; Gagné, M., et al. (2022), “Self-Determination Theory and the Future of Work”, Frontiers in Psychology; Edmondson, A. (1999), “Psychological Safety and Learning Behavior” in Work Teams, Administrative Science Quarterly; Bennetts, C. e Bone, J. (2020), “Montessori Literature Through the Lens of Leadership”; Fullagar, C. e Kelloway, E.K. (2023), “Flow at Work: Review and Meta-analysis”, Journal of Occupational Health Psychology; Marshall, C. (2017), “Montessori Education: A Review of the Evidence Base”, Science of Learning.

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Sostenibilità, consulenza e tecnologia per la rendicontazione ESG

Tra il contesto normativo e quello più squisitamente di mercato si celano opportunità per le imprese di ogni dimensione; ma, ognuna di queste, ha esigenze specifiche a seconda che si parli di grande, media o piccola impresa. In generale, spicca il ruolo della tecnologia che, anche attraverso l’Intelligenza Artificiale (AI) riesce a supportare soprattutto le PMI, che spesso sono maggiormente in difficoltà e sono meno organizzate dal punto di vista della digitalizzazione. Di recente una delle questioni più discusse riguarda la rendicontazione di sostenibilità che ha visto il posticipo del reporting al 2028, relativamente all’anno 2027, e non al 2026 sull’anno 2025, con una riduzione dei contenuti iniziali.

“I contenuti iniziali erano molto più stringenti sia come dimensioni aziendali sia in termini di numerosità dei dipendenti”, spiega Valentina Ubaldi, Head of HR Mobility & ESG Solution di Zucchetti. Nella Direttiva UE si parlava, infatti di aziende con 250 persone, con un fatturato di 25 milioni di attivo o 50 milioni di ricavi netti. Oggi invece le informazioni sono molto più a maglie larghe: aziende con almeno 1.750 dipendenti e un fatturato minimo di 450 milioni di euro”.

Qual è la ratio dietro questa decisione dell’Unione Europea? L’obiettivo non è ridurre l’attenzione alla sostenibilità, ma facilitare l’ingresso delle PMI nel percorso ESG, evitando complessità eccessive e ostacoli burocratici che avrebbero reso il processo quasi impossibile.

Dalla sostenibilità non si può (deve) scappare

La sostenibilità, però, non è solo un adempimento legislativo. A chiarirlo è Ubaldi: “Quando si parla di sostenibilità, si mette in campo un insieme di leve interconnesse. La prima – che poi è la principale – riguarda gli accordi internazionali, come l’Agenda 2030 e gli obiettivi SDGs, che devono rappresentare una bussola per tutte le politiche economiche e finanziarie mondiali”. A livello europeo, ci sono poi l’Accordo di Parigi e il Green Deal che hanno dato vita alla Corporate sustainability reporting directive (CSRD), recepita dall’Italia con il Decreto legislativo 125/2024.

Le PMI, pur non essendo obbligate, diventeranno presto anelli fondamentali delle filiere: anche se non saranno soggette direttamente alla rendicontazione, dovranno fornire dati di sostenibilità ai clienti più grandi”, prosegue la manager di Zucchetti. In questo modo è il mercato stesso a richiedere un’accelerazione sul tema sostenibilità, perché le grandi aziende non possono più lavorare con fornitori che non forniscono dati ESG. E chi rimane indietro rischia di perdere opportunità commerciali”.

Un altro driver è la finanza sostenibile. Secondo Ubaldi, la tassonomia stabilisce criteri per determinare se un’attività economica è sostenibile, con impatto diretto su credito e investimenti. Possedere un profilo ESG solido significa migliori condizioni di accesso al credito, tassi più favorevoli e vendor rating elevato: sono tutti elementi fondamentali per la competitività. E chi inizia già da ora a muoversi nell’ESG acquisisce vantaggi concreti, come: “Accesso al credito più agevolato, maggiori opportunità nei bandi e nella filiera, nonché attrattività più alta per i giovani talenti, che vogliono lavorare in aziende con purpose chiaro e valori coerenti”.

Il digitale come alleato per la sostenibilità

Per supportare le piccole imprese, l’European financial reporting advisory (Efrag) ha sviluppato il Voluntary sustainability reporting standard for non-listed SMEs (Vsme), cioè lo standard volontario per le PMI fino a 250 dipendenti. “È proporzionato e semplificato; permette di rispondere in modo standardizzato alle richieste delle realtà capofiliera”, commenta Ubaldi. In questo caso il modello prevede due livelli: uno base, con 11 indicatori chiari e raggiungibili; uno avanzato, con KPI più articolati e strategie ESG dettagliate, utili per comunicare con clienti, istituti di credito e investitori.

La rendicontazione ESG non è tuttavia solo un esercizio burocratico, perché richiede una serie di attività a livello organizzativo: “Portare la sostenibilità significa ripensare governance, responsabilità e processi decisionali; Serve commitment del top management, investimenti in tecnologia, infrastrutture e competenze interne”, spiega Ubaldi.

Ecco allora che la digitalizzazione diventa quindi precondizione per la sostenibilità: “I dati ESG sono spesso frammentati, nascosti in silos aziendali; è fondamentale centralizzarli, automatizzarne la raccolta e trasformarli in informazioni utili; l’AI aiuta a leggere dati grezzi da Excel o da documenti destrutturati e trasformarli in KPI certi e tracciabili”.

Dal foglio bianco agli obiettivi chiari

Asset management, HR e governance sono i tre pilastri ESG nella declinazione di Zucchetti. “Abbiamo soluzioni per efficientamento energetico, gestione rifiuti, mobilità delle persone e delle merci, calcolo delle emissioni certificato da Bureau Veritas”, spiega Ubaldi. Partendo dall’ambito HR, la software house di Lodi propone una piattaforma che integra dati amministrativi, formazione, sicurezza e mobilità dei lavoratori, trasformandoli in KPI ESG. Nel caso della governance, Zucchetti offre: “Strumenti per gestione rischi, whistleblowing, Modello 231, cyber security e parità di genere; per welfare e CSR, supportiamo le aziende nell’engagement dei dipendenti”.

Zucchetti ha approcciato il tema dell’ESG cercando di mettere a fattore comune tutte le potenzialità (e l’offerta) delle oltre 100 aziende del suo ecosistema. Abbiamo chiesto a Ubaldi di raccontare un esempio di approccio alle imprese: “Siamo stati a fianco di una PMI metalmeccanica di 150 dipendenti e 70 milioni di fatturato; partendo dal foglio bianco abbiamo realizzato un assessment per mappare processi, punti di forza e aree di miglioramento; abbiamo aiutato l’azienda a ottenere bandi e finanziamenti, avviato percorsi formativi e introdotto gradualmente strumenti tecnologici. È stato un percorso a 360 gradi, con risultati concreti sia in termini di efficienza sia di posizionamento ESG”.

Le piattaforme digitali semplificano la trasformazione

La sensazione è che inevitabilmente l’attenzione delle imprese italiane all’ESG crescerà gradualmente, con impatti su produzione, efficienza e competitività. “Sarà una rivoluzione culturale e tecnologica; le aziende che iniziano oggi avranno vantaggi su credito, filiere, bandi e attrattività dei talenti; chi aspetta rischia solo di accumulare ritardi”, è la tesi di Ubaldi.

Il consiglio pratico da parte della manager è chiaro: “Partire da un assessment, capire lo stato attuale, identificare punti di forza e lacune e prevedere supporto consulenziale; l’AI diventa un fattore abilitante per raccogliere dati, trasformarli in informazioni e prendere decisioni strategiche”. Ma quale deve essere il (nuovo) ruolo dei professionisti? “Commercialisti, associazioni di categoria e consulenti devono formarsi per affiancare le PMI, usando strumenti guidati e piattaforme digitali che semplifichino il percorso ESG”. In sintesi, sostenibilità e tecnologia non sono più opzionali. Diventano leve strategiche, elementi di competitività e driver di innovazione. Dice bene Ubaldi: “Il percorso inizia oggi, non domani”.

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Manifattura, il modello Usa può rilanciare il Made in Italy?

In Italia la produzione industriale è in crisi da tempo. E con la Manifattura in difficoltà, anche il Made in Italy, su cui si basa il successo dall’economia nostrana, affronta un momento di flessione. In che modo il settore può tornare (se possibile) ai fasti di un tempo? Un caso interessante è quanto sta accadendo Oltreoceano, dove c’è chi ha fatto del ritorno alla produzione manufatturiera un trampolino per un nuovo rilancio. E se sono sempre più introvabili i giovani che vogliono dedicarsi alla Manifattura, in un luogo degli Stati Uniti le cose stanno girando diversamente.

Succede a Bridgeport, la più popolosa città del Connecticut, a poco meno di due ore di treno da New York. Un tempo qui avevano sede numerose aziende di produzione di pistole e cavi elettrici. Adesso, decenni dopo, la situazione è cambiata radicalmente. Daniel Velazquez è un 19enne originario del posto; aveva sentito parlare di un programma universitario per saldatori della durata di nove mesi, all’Università di Bridgeport. Si tratta di un percorso lanciato nel 2018 a cui avevano aderito soli quattro studenti, mentre oggi lo stesso corso ne accoglie 50. Tutti formati per diventare macchinisti, tecnici meccatronici o della robotica.

A Velazquez piace lavorare con le mani, e così – finite le lezioni – è stato assunto in una azienda di produzione nautica, la Row America. “Se mi avessero detto che avrei trovato lavoro due settimane dopo la fine del programma di studi non ci avrei creduto”, ha detto il giovane al Washington Post. E ha anche manifestato soddisfazione di avere una paga di 25 dollari all’ora (21 euro), contro i 16,35 che corrispondono al salario minimo locale: “Il lavoro mi piace perché richiede concentrazione, perché l’alluminio può essere fragile, si può fare un pasticcio se non si presta la giusta attenzione”.

La mancanza cronica di lavoratori da assumere

La strada per rispondere ai bisogni dell’imprenditoria del territorio è ancora lunga. In tutto il Connecticut ci sono 5mila posti di lavoro vacanti nella Manifattura, secondo il Dipartimento del Lavoro. L’80% degli imprenditori che ha partecipato a un recente sondaggio ha fatto sapere che trovare lavoratori con le competenze adeguate è diventato un problema. Un terzo ha affermato come la questione della forza lavoro è il principale ostacolo rispetto a una eventuale espansione. “Anche se il programma è cresciuto rapidamente, non è ancora sufficiente”, ha detto Clifford Thermer, decano di un’altra scuola della zona, quella di Business, Management e Manifattura Avanzata di Goodwin.

Nel XIX secolo la città era stata sede di filiali di grandi aziende come la General Electric o della Westinghouse. E qui, almeno fino alla prima metà del Ventesimo secolo, aveva avuto la propria sede la Bryant Electric, che produceva dozzine di componenti elettriche tra cui gli interruttori push and pull. Non solo, ma c’era stata anche la Bridgeport Brass, che sfornava lampade e orologi, e poi bossoli durante la Seconda Guerra Mondiale. In tutto, la città era arrivata a produrre quasi 500mila armi, conosciute come Thompson Submachine Gun.

Poi la deindustrializzazione degli Anni 70 e 80, con la conseguente migrazione di lavoratori e lo svuotamento di interi stabilimenti. Ci fu anche un’epidemia collegata al consumo di crack, che contribuì a logorare il numero di residenti. Ma proprio gli spazi creati dallo spopolamento cominciarono a suscitare l’interesse delle compagnie manufatturiere, che sono tornate sul posto, anche grazie a incentivi statali, restituendo splendore al settore manufatturiero. E anche riqualificando la zona. Gli stabilimenti moderni sono diversi da quelli del passato e potrebbero definirsi smart: sono più piccoli, più puliti e più specializzati. Che sia questa la via per rilanciare la Manifattura? Negli Usa sembra funzionare.

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Pagate il soldato Ryan

Il servizio militare si rifà il trucco e punta sulla retribuzione per aumentare la sua capacità attrattiva. Succede in Germania, dove si sta discutendo – com’è normale in questo periodo di forti tensioni geopolitiche – di Difesa. L’ex locomotiva d’Europa conta oggi con un esercito formato da 182mila soldati. Ma un nuovo disegno di legge si pone l’obiettivo di arrivare a un ampliamento delle fila fino a circa 255-270mila unità (più circa 200mila riservisti), così da allinearsi alle richieste della Nato.

Per spronare i giovani a cimentarsi in una carriera militare ci vuole però un investimento. E da dove partire se non dalle retribuzioni? E il piano del Governo, ha fatto sapere il giornale Politico, è quello di includere incentivi di peso: l’offerta prevede uno stipendio da 2.600 euro al mese. Per arrivare alla cifra proposta in Germania bisogna, però, far parte della dirigenza: solo un maggiore ha una busta paga netta intorno ai 2.800 euro mensili. E poi, prevede ancora la riforma tedesca, durante il servizio militare è prevista l’erogazione di un sussidio per ottenere la patente di guida, oltre al conseguimento dello status di veterani.

Il voto ci sarà entro la fine del 2025. L’accordo attuale tra conservatori e socialdemocratici punta sull’introduzione di un modello ibrido. La prima bozza presentata da Boris Pistorius, Ministro della Difesa prevedeva, per riempire i vuoti di organico nell’esercito, un sistema di reclutamento automatico. La proposta aveva, però, suscitato un grande dibattito rispetto a un punto: fino a dove ci si può spingere per obbligare i giovani al servizio di leva?

Così si è arrivati a un compromesso. Il disegno di legge ipotizza che tutti i 18enni saranno formalmente registrati come ‘papabili’ per il servizio militare. Ai maschi sarà richiesto di compilare un questionario sullo stato di salute e sulla volontà di arruolarsi. Per i ragazzi di sesso maschile nati a partire dal 2008 ci sarà anche la visita medica obbligatoria in modo che lo Stato possa avere contezza di chi potrebbe essere contattato in caso di necessità.

Anziché però reintrodurre la leva obbligatoria come un tempo, il nuovo meccanismo prevedrebbe un obbligo basato sulle esigenze contingenti, che si attiverebbe solo in caso di voto favorevole del Parlamento. Solo se la situazione lo richiedesse, in sostanza, il Legislatore potrebbe imporre l’obbligatorietà del servizio militare. E così procedere con una selezione di giovani. E un eventuale sorteggio, solo come extrema ratio.

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