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Ferrari nuovo amministratore di Valtecne

Valtecne, azienda valtellinese specializzata nella meccanica di alta precisione per dispositivi medicali e applicazioni industriali, rafforza la propria governance e guarda con decisione alla crescita nel settore sanitario. Durante l’Assemblea Ordinaria degli Azionisti, la società ha deciso di aumentare il numero dei consiglieri da cinque a sei, con l’obiettivo di ampliare le competenze strategiche e manageriali alla guida del gruppo.

Nel nuovo assetto entra Luigi Ferrari, manager con una lunga esperienza nel settore MedTech. Per oltre dieci anni ha guidato LimaCorporate, storica azienda italiana di impianti ortopedici oggi parte del gruppo americano Enovis, contribuendo alla sua espansione internazionale. In precedenza ha ricoperto ruoli di vertice in Orthofix Medical, società quotata al Nasdaq. Ferrari resterà in carica fino all’approvazione del bilancio 2025 e affiancherà il management anche in veste di senior advisor, offrendo supporto nella crescita industriale, nello sviluppo commerciale e nell’espansione sui mercati esteri. A testimoniare il proprio impegno nel progetto, Ferrari ha inoltre investito in KPM S.r.l., la holding che controlla Valtecne, diventando così anche parte del capitale del gruppo.

“Siamo entusiasti di accogliere l’ingegner Ferrari. Il suo ingresso porta esperienza e visione in un momento cruciale per lo sviluppo nel settore medicale, una delle nostre principali priorità strategiche. La sua partecipazione come investitore conferma la fiducia nel potenziale di crescita di Valtecne”, ha dichiarato Paolo Mainetti, amministratore delegato di Valtecne. “Sono felice di mettere la mia esperienza al servizio di un’azienda che ha dimostrato grande solidità e ambizione. Valtecne ha una visione chiara e una forte attenzione alla qualità, basi ideali per crescere e consolidarsi nel mercato dei dispositivi medicali”, ha commentato Ferrari. Con questo nuovo ingresso, Valtecne rafforza ulteriormente il proprio percorso di sviluppo, puntando a consolidare la presenza nel settore medicale e a sostenere una crescita sostenibile nei prossimi anni.

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Tetra Pak, celebra 60 anni di attività in Italia

In Italia è nata nel 1965 quando, dalla Svezia, partì l’input di aprire una filiale nel nostro Paese. Fu scelta la cittadina di Rubiera, in provincia di Reggio Emilia, ancora oggi operativa, per installare il primo insediamento di quella che, anche in Italia, è diventata l’azienda conosciuta, a livello mondiale, nella lavorazione degli alimenti e nelle soluzioni di confezionamento.

Nel 2025 l’azienda celebra i suoi primi 60 anni in Italia: sono cinque le sedi operative in Italia di Tetra Pak (Rubiera, Modena, Sezzadio, Ambivere, Monza) che danno lavoro a 1.700 dipendenti, mentre la produzione serve milioni di consumatori. Insomma, chi non ha mai acquistato un prodotto alimentare fresco o confezionato – latte, succhi di frutta, ecc. – e non si è accordo della scritta “Tetra Pak” sulla confezione?

Secondo una nota della società, i numeri parlano chiaro: oltre 120 clienti attivi per 5,2 miliardi di confezioni all’anno e più di 620 impianti installati sul territorio nazionale. A livello globale, invece, 100 milioni di euro investiti ogni anno in attività di ricerca e sviluppo al fine di ricercare sempre soluzioni sostenibili e materiali rinnovabili certificati, come per esempio, progetti che spaziano dalle barriere a base carta per ridurre l’uso di alluminio.

Dal 1965 attenzione a sostenibilità e sicurezza

Oggi, in media, i cartoni per bevande sono composti per il 75% da carta proveniente da fonti certificate e Tetra Pak sta sperimentando soluzioni per aumentare ulteriormente la quota rinnovabile e investendo 40 milioni di euro nella filiera del riciclo, collaborando con partner e istituzioni per raggiungere l’obiettivo europeo del 70% di riciclo dei cartoni entro il 2030. In Italia, l’azienda sostiene attivamente iniziative per incrementare la raccolta differenziata e favorire lo sviluppo del mercato dei materiali riciclati, sia per la componente cellulosica, sia per quella in alluminio e plastica (polyAl).

Per la storica ricorrenza dei 60 anni, la società ha scelto un titolo significativo: “60 anni di futuro”, che esprime l’idea di guardare sempre avanti, cercando di anticipare le trasformazioni del settore agroalimentare e creare valore come parte di un ecosistema che vuole evolvere.

A proposito di evoluzione, tornando al 1965, è utile ricordare lo ‘sbarco’ in Italia con la Converting Factory, un punto di partenza che, di fatto, ha rivoluzionato il mondo del confezionamento: basti pensare alla confezione asettica che ha portato sicurezza e qualità alimentare nelle case degli italiani. “Rubiera rappresenta un ecosistema unico, dove innovazione e operatività convivono ogni giorno”, spiega Federico Mazza, Direttore della Converting Factory di Rubiera. “Qui costruiamo il futuro, investendo in sicurezza, qualità, servizio al cliente e persone, che sono il vero motore della nostra crescita”.

Guardare avanti con determinazione

Ma come si è evoluto il mondo Tetra Pak? Per tappe, come giusto fare, senza fare passi ‘più lunghi della gamba’. L’apertura del sito dedicato alle macchine confezionatrici a Modena, la nascita del centro di R&D e lo sviluppo di soluzioni che hanno accompagnato l’evoluzione dei consumi senza trascurare la sostenibilità e la gestione degli sprechi.

L’Italia è uno dei principali mercati del gruppo, grazie a un ecosistema che integra dimensione produttiva, attività commerciali e servizi. Oltre al packaging c’è di più. Infatti, Tetra Pak offre impianti di trattamento, servizi di manutenzione e aggiornamento, formazione avanzata e strumenti digitali per migliorare le performance. Oltre a portare sicurezza alimentare sulle tavole degli italiani e, al contempo, riduzione dell’impatto ambientale grazie a tecnologie come la Water filtering station che consente di abbattere il consumo di acqua fino al 95% nelle linee di riempimento.

“Celebrare questo anniversario significa guardare avanti con rinnovata determinazione”, ha affermato Paolo Maggi, Presidente e Managing Director Tetra Pak South Europe. “Il nostro obiettivo è continuare a essere un partner strategico per la filiera agroalimentare italiana, rafforzando la collaborazione con tutti gli attori del settore e contribuendo agli obiettivi condivisi di crescita e sostenibilità”.

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Addio ad Alberto Bertone, l’uomo dell’Acqua Sant’Anna

È morto nella notte di martedì 11 novembre 2025, a causa di una malattia contro la quale lottava da mesi, Alberto Bertone, Amministratore Delegato di Acqua Sant’Anna: l’imprenditore aveva 59 anni (classe 1966) ed era nato a Moncalieri; si era laureato in Scienze Politiche con indirizzo economico e aveva conseguito un Master MBA in Pianificazione del mercato immobiliare presso il Politecnico di Torino. Ha legato il suo nome alle Fonti di Vinadio Spa, proprietaria del marchio Sant’Anna: aveva infatti fondato l’azienda nel 1996 dopo aver collaborato a lungo con il padre Giuseppe nella gestione delle attività di famiglia.

In passato Bertone era stato intervistato dalla rivista Sistemi&Impresa, il magazine dedicato alle tecnologie a impatto organizzativo della media company ESTE, editore anche del nostro quotidiano. Riproponiamo alcuni estratti (rivisti) dell’intervista dal titolo “Acqua Sant’Anna, leader di mercato grazie a percorsi diversi e innovativi”, realizzata da Luca Bastia.

Dalle scelte azzardate al successo aziendale

Una storia particolare quella di acqua Sant’Anna. La società è nata nel 1996 e si è inserita in un mercato presidiato da numerose imprese nazionali e multinazionali con marchi già ampiamente consolidati: tuttavia, in pochi anni, Fonti di Vinadio diventa leader nazionale del settore delle acque minerali, grazie a una costante ricerca di innovazione e alla capacità imprenditoriale dei suoi fondatori, la famiglia Bertone. Famiglia che dagli Anni 50 opera nel settore dell’edilizia.

Anche questo è un elemento che rende particolare la storia dell’azienda perché una delle chiavi del successo, come sottolineava provocatoriamente Bertone, risiede proprio nella scarsa conoscenza del settore acque minerali: “L’essere ‘ignoranti’, il non avere dei pregressi in questo ambito è stata una fortuna perché ci ha dato la possibilità di percorrere nuove strade, di costruire uno stabilimento diverso da come lo avevano gli altri operatori del settore”.

Giuseppe Bertone (scomparso nel 2008) è l’imprenditore edile cui si affiancano negli Anni 90 i figli Fabrizio e Alberto. Nel 1995 Giuseppe viene a conoscenza della qualità superiore dell’acqua che sgorga nelle valli che sovrastano Vinadio nelle Alpi Marittime, in provincia di Cuneo, e decide di intraprendere questa nuova avventura.

Alberto, che aveva ereditato dal padre l’intraprendenza e il gusto per le sfide impossibili, lo convince ad affidargli lo sviluppo del nuovo progetto e dal 1996, anno in cui nasce Fonti di Vinadio, si dedica anima e corpo alla realizzazione di un obiettivo ambizioso: portare quest’acqua sulla tavola di tutti gli italiani. L’obiettivo è stato raggiunto, anzi superato, perché se nei primi anni di attività Fonti di Vinadio vendeva tante bottiglie quanti sono gli italiani, successivamente è arrivata a vendere in un anno tante bottiglie quanti sono gli abitanti d’Europa.

L’ignoranza per noi è stata una fortuna”, diceva Bertone. “È tutta la vita che predico l’ignoranza, perché ci consente di continuare a provare nuove strade che altri, che conoscono la materia, non tentano; sperimentando cose innovative ‘ritenute impossibili’, nel caso si ottenga il risultato cercato si fa la differenza”.

Seguendo questa filosofia, l’azienda è stata tra le prime ad abbassare il collo della bottiglia, togliendo tanti grammi nella confezione, un piccolo risparmio economico che, moltiplicato per un numero elevato di bottiglie, porta a un vantaggio finanziario notevole in un anno. È stata la prima anche a usare il laser e non l’inchiostro per codificare le bottiglie e ora è uno standard utilizzato da tutti. Non solo: è stata tra le prime a utilizzare le bottiglie a sezione quadrata e così nello stesso spazio era possibile a caricare molte di più (25%) abbassando i costi di trasporto. La sua lungimiranza è una grande perdita per tutto il sistema economico italiano.

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Cercasi Direttori del Personale coraggiosi

Uno degli aspetti più inquietanti del panorama attuale riguarda le nuove generazioni. I più recenti dati Istat parlano chiaro: la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 21,6%, con una flessione dell’occupazione tra i 15-24enni e i 25-34enni. A fronte di una crescita generale dell’occupazione, soprattutto tra gli Over 50, il mondo giovanile appare sempre più fragile, disilluso e in cerca di alternative.

Ma non si tratta solo di mancanza di lavoro. È in atto un cambiamento più profondo: molti giovani non cercano più il ‘posto fisso’, ma un lavoro che abbia senso, che sia coerente con i propri valori, che offra flessibilità e possibilità di crescita. Secondo le analisi di Laborability, si osserva una migrazione costante verso forme di lavoro autonomo e indipendente, segno di una generazione che rifiuta modelli tradizionali e cerca nuove strade.

Questa tensione tra desiderio di cambiamento e scarsità di opportunità si inserisce in un contesto di forte instabilità. Le guerre, le crisi energetiche, le tensioni geopolitiche rendono le aziende più caute, meno propense a investire, più lente nel prendere decisioni. E così, il sogno di un lavoro significativo si scontra con una realtà che offre contratti a termine, percorsi incerti, carriere frammentate.

L’HR come ponte tra generazioni

In Italia, la situazione è aggravata dalla struttura del tessuto produttivo: la prevalenza di Piccole e medie imprese (PMI), spesso prive di una funzione HR strutturata, rende difficile intercettare e valorizzare il talento giovanile. Le produzioni sono spesso mature, poco innovative, e competono con Paesi come la Cina, dove le filiere sono integrate, scalabili, efficienti. Qui da noi, invece, la dispersione delle competenze, la mancanza di massa critica, la resistenza al cambiamento rendono la trasformazione più lenta e faticosa.

Ecco perché l’HR deve assumere un ruolo di ponte generazionale. Deve ascoltare i giovani, comprenderne le aspirazioni, creare percorsi di sviluppo autentici. Deve aiutare le aziende a superare la paura dell’instabilità, mostrando che investire nelle persone – soprattutto nei giovani – è l’unico modo per costruire futuro.

Le opportunità nascoste

Ogni crisi porta con sé anche opportunità. È nei momenti di instabilità che le aziende possono ridefinire il proprio purpose, accelerare la digitalizzazione, sperimentare nuovi modelli di lavoro. Lo Smart working, la settimana corta, il job sharing non sono solo soluzioni tattiche, ma segnali di un cambiamento più profondo. E l’HR può essere il catalizzatore di questa trasformazione.

Molti professionisti oggi cercano aziende con valori forti, leadership autentica, impatto sociale. Non vogliono solo un lavoro, vogliono un senso. E l’HR può intercettare questo bisogno, costruendo employer brand credibili, esperienze significative, comunità autentiche.

In tempi di guerra e instabilità, l’HR non può restare in attesa. Deve agire, influenzare, innovare. Deve essere la voce che ricorda che dietro ogni decisione c’è una persona, una storia, una possibilità. Il mondo ha bisogno di HR coraggiosi, visionari, capaci di navigare l’incertezza con lucidità e umanità.

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Green economy, piace ma (ancora) non decolla

Qualche progresso significativo, ma anche ritardi e criticità ancora aperte. È questo, in sintesi, il quadro della Green economy, emerso dall’analisi della nuova edizione degli Stati Generali della Green Economy, l’appuntamento nazionale dedicato alla sostenibilità ambientale e alla transizione ecologica che si è tenuto durante l’ultima edizione di Ecomondo a Rimini. L’incontro è stato promosso dal Consiglio nazionale della Green economy e dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile.

Nel 2024 le emissioni di gas serra sono diminuite, ma troppo poco: solo il 2% in un anno e molto meno rispetto al 2023. I consumi di energia sono tornati a crescere, soprattutto negli edifici e nei trasporti, mentre il consumo di suolo continua ad aumentare. L’Italia, inoltre, resta dipendente dall’importazione di energia dall’estero e mantiene il primato europeo per numero di auto: 701 ogni 1000 abitanti.

Non mancano, però, i segnali positivi. La produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili ha raggiunto il 49% del totale nazionale, l’agricoltura biologica è cresciuta del 24% nell’ultimo anno e l’Italia resta leader in Europa per economia circolare, con tassi di riciclo tra i più alti del Continente. Così ha commentato Gilberto Pichetto Fratin, Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica: “Abbiamo leadership in settori chiave come l’Economia circolare e possiamo guidare una transizione realistica e pragmatica, fondata su innovazione, crescita sostenibile e sicurezza energetica”.

L’Italia deve accelerare sulla riduzione delle emissioni

Dal 1990 al 2024 l’Italia ha ridotto le emissioni del 28%, ma per raggiungere l’obiettivo europeo del -43% entro il 2030 è necessario accelerare, tagliando un ulteriore 15% nei prossimi sei anni. Il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato, con oltre 3.600 eventi climatici estremi, quattro volte più del 2018.

Sul fronte energetico, nonostante la crescita delle rinnovabili, il primo semestre del 2025 mostra un rallentamento del 17% nelle nuove installazioni di eolico e fotovoltaico, anche per la fine del Superbonus 110% e per vincoli regionali.

In ambito di economia circolare, l’Italia mantiene performance eccellenti: produttività delle risorse in aumento del 32% e tasso di riciclo complessivo all’86%. Tuttavia, il mercato delle materie prime seconde, in particolare della plastica riciclata, è in crisi e rischia di compromettere i risultati raggiunti.

La mobilità sostenibile resta una delle maggiori criticità. L’Italia detiene il record europeo per numero di auto, ma la produzione nazionale è ai minimi storici. Le vetture elettriche rappresentano solo il 7,6% delle vendite, sotto la media Europea (22,7%). Il parco auto è alimentato per l’82,5% da benzina e diesel e l’età media dei veicoli è di 12,8 anni, segno di un rinnovo troppo lento.

Eventi estremi, ‘la nuova peste’ per l’Agricoltura

Il settore agricolo è tra i più colpiti dal cambiamento climatico: dal 1980 al 2023 i danni causati da eventi estremi hanno raggiunto 135 miliardi di euro, ma cresce il biologico. Nel 2024 le superfici certificate e in conversione hanno superato i 2,5 milioni di ettari, con Sicilia, Puglia e Toscana in testa. Il consumo di suolo resta elevato, con 64,4 chilometri quadrati di territorio cementificati tra il 2022 e il 2023 (circa 18 ettari al giorno). Le città più impermeabilizzate sono Napoli (34,7%) e Milano (31,8%), mentre Messina, Reggio Calabria e Palermo presentano i valori più bassi.

Le città italiane, particolarmente esposte agli effetti del cambiamento climatico, hanno mostrato grande dinamismo grazie ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Nel 2024 oltre il 90% della popolazione urbana ha vissuto spesso a temperature superiori ai 40 gradi.

Molti Comuni hanno avviato progetti per la gestione innovativa dei rifiuti, il potenziamento del trasporto pubblico e la valorizzazione del verde urbano. Tuttavia, dal 2026, con la fine dei fondi del Pnrr, serviranno nuovi strumenti di finanziamento per non fermare la transizione ecologica avviata. E si spera che 2026 si apra sotto una nuova luce con formule meno contorte rispetto a quanto è successo con il Piano Transizione 5.0.

“Conviene o no all’Italia rallentare la transizione verso una Green economy decarbonizzata e circolare? Noi riteniamo di no”, ha dichiarato Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile. Ronchi ha sottolineato come i progetti del Pnrr, grazie al loro contenuto ambientale, abbiano avuto un impatto positivo sull’economia italiana, evitando stagnazione o recessione e contribuendo al contenimento del deficit. “Per un Paese come il nostro, al centro dell’hot spot climatico del Mediterraneo, la transizione energetica è di vitale importanza”.

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Dalla spesa alla strategia, MRO verso la maturità digitale

Nel procurement dei materiali indiretti (MRO) in Italia è in corso una trasformazione profonda, una metamorfosi che sta ridefinendo ruoli, priorità e competenze. I numeri raccontano la portata del cambiamento: il 74% delle aziende indica la digitalizzazione del processo d’acquisto come priorità, il 67% riconosce all’ufficio acquisti il ruolo di referente principale per gli approvvigionamenti MRO, e l’81% ha scelto di stipulare accordi di lungo periodo con i propri fornitori.

È quanto emerge dalla ricerca “Il Procurement dei materiali indiretti in Italia 2025”, quarta edizione dell’indagine promossa da RS Italia, fornitore globale di soluzioni per l’industria, e da Adaci, l’Associazione Italiana Acquisti e Supply Management, in collaborazione con l’Università Europea di Roma. “Il procurement MRO si allontana sempre più da un passato marginale per diventare una leva di efficienza, resilienza e sostenibilità”, osserva Massimiliano Rottoli, Managing Director di RS Italia.

Dietro questa evoluzione, tuttavia, le pressioni restano significative. Le imprese devono affrontare vincoli di budget, la gestione di una molteplicità di codici prodotto e criticità operative come rotture o fermi macchina, spesso in un contesto di collaborazione interfunzionale ancora frammentata.
“Nonostante le pressioni sui costi, emergono segnali incoraggianti: il 67% delle imprese riconosce un ruolo strategico agli acquisti, il 74% investe nella digitalizzazione e il 58% punta sulla formazione”, sottolinea Emanuela Delbufalo, professore ordinario di Economia e Gestione delle Imprese all’Università Europea di Roma.

L’AI è già presente nel 19,4% delle imprese

Per reagire alle pressioni crescenti, le imprese puntano su tre leve principali: digitalizzare i processi, razionalizzare la base fornitori e rafforzare le competenze dell’ufficio acquisti. Tra queste, la digitalizzazione si conferma il vero pilastro di trasformazione: consente una gestione più accurata dei fabbisogni MRO, riduce le emergenze e rende l’intero sistema di approvvigionamento più trasparente e prevedibile. La diffusione delle tecnologie di base è ormai ampia: il 73% delle aziende utilizza sistemi informativi integrati e il 60% piattaforme di e-procurement. Rimane invece più contenuto l’impiego di soluzioni avanzate, che rappresentano la frontiera su cui si gioca la competitività futura.

Su questo fronte, un ruolo di primo piano spetta all’Intelligenza Artificiale (AI), protagonista per la prima volta di un focus specifico nell’edizione 2025 della ricerca. Una strategia strutturata di adozione è già presente nel 19,4% delle imprese, mentre il 26,9% si trova in fase di valutazione. L’uso avanzato e integrato riguarda il 10,4% del campione, e un ulteriore 20,9% applica l’IA a singole attività, in particolare all’analisi dei dati.

Le prospettive di sviluppo per il breve e medio periodo si concentrano su previsione della domanda e gestione delle scorte, automazione dei pagamenti e misurazione dell’impatto ambientale dei processi. Restano però barriere rilevanti: la difficile integrazione con i sistemi esistenti, la resistenza culturale e la necessità di sviluppare nuove competenze interne. La direzione è tracciata, ma il cammino verso una piena maturità digitale è ancora lungo.

Si consolida il ruolo della funzione acquisti

Anche senza il contributo diretto dell’AI, l’evoluzione della funzione acquisti nelle imprese italiane è ormai un fatto compiuto. L’ufficio acquisti si è progressivamente affermato come punto di riferimento strategico per la gestione degli approvvigionamenti MRO, con procedure più strutturate e, in molti casi, budget dedicati. Un segnale chiaro di maturazione organizzativa e di un nuovo approccio alla performance, sempre meno centrato sul costo e sempre più orientato al valore generato.

Parallelamente, si consolida la scelta di diversificare i canali di fornitura, pur mantenendo rapporti di lungo periodo con i partner più affidabili. Nonostante questo passo avanti, molte aziende faticano ancora a trovare cataloghi digitali aggiornati (50%) o a coinvolgere in modo sistematico i fornitori nei processi decisionali, elementi oggi essenziali per una catena di fornitura realmente integrata.

Nei criteri di selezione, accanto a prezzo e affidabilità, cresce il peso della sostenibilità e della qualità del servizio. Sempre più imprese privilegiano fornitori certificati e socialmente responsabili (55%), attenti a packaging sostenibili, energie rinnovabili e prossimità territoriale. Anche la logistica si orienta a una maggiore efficienza: molte aziende cercano di ridurre le spedizioni attraverso ordini consolidati e attribuiscono crescente importanza ai servizi a valore aggiunto proposti dai partner.

Guardando avanti, le priorità si concentrano su gestione dei rischi nella supply chain, controllo dell’inflazione e investimenti tecnologici, a conferma di una funzione acquisti sempre più orientata a resilienza e innovazione. “Accogliamo con grande piacere questa quarta edizione della ricerca sul procurement MRO, ormai tassello fondamentale nell’evoluzione della funzione acquisti in Italia. I dati confermano che una metamorfosi è in corso: le imprese investono nella qualificazione del personale e riconoscono all’ufficio acquisti un ruolo strategico. È attraverso la formazione continua che abilitiamo questa trasformazione. Solo con professionisti preparati possiamo costruire un procurement moderno, capace di generare innovazione, sostenibilità e valore”, conclude Fabrizio Santini, Presidente Adaci.

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Capitane (non) coraggiose: perché le donne non si vedono leader?

Le donne hanno più competenze chiave di leadership rispetto agli uomini: prendono l’iniziativa, sviluppano nuove capacità, mostrano alta integrità e onestà, guidano i risultati, ispirano, motivano, costruiscono relazioni, collaborano e a lavorano efficacemente in team, stabiliscono obiettivi ambiziosi e promuovono il cambiamento. Eppure, le donne rifuggono l’etichetta di “leader”. Perché c’è (ancora) questa riluttanza a vedersi nei ruoli apicali? E in che modo influisce sulla loro carriera e sui risultati organizzativi? In che modo le aziende possono colmare il divario per sfruttare i talenti di leadership?

Ne parliamo nella puntata di venerdì 14 novembre 2025 di PdM Talk, il talk show settimanale di Parole di Management che va in onda in diretta streaming ogni venerdì dalle 12 alle 13 (la diretta è visibile sul sito del quotidiano, sul canale YouTube di Parole di Management e sul profilo ESTE di LinkedIn).

In ogni puntata i rappresentanti della grande community di imprenditori e manager della casa editrice ESTE e di Parole di Management si confrontano sulle questioni di attualità – dagli avvenimenti della politica alle mutazioni della società – che hanno un interesse per chi gestisce e vive le organizzazioni.

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Le potenzialità dell’AI a portata di clic

La gestione delle attività operative quotidiane rappresenta, per molte aziende, un impegno costante e dispendioso in termini di tempo e risorse. Operazioni come la contabilità, la fatturazione, la registrazione dei documenti, il monitoraggio delle scadenze e l’analisi dei dati richiedono un’attenzione continua, spesso sottraendo energie preziose alla pianificazione strategica e alla crescita del business. Oggi, grazie all’integrazione di strumenti avanzati di Intelligenza Artificiale (AI), queste attività possono essere notevolmente semplificate. I nuovi sistemi non si limitano più alla semplice registrazione dei dati: diventano veri e propri assistenti intelligenti, capaci di supportare attivamente la gestione dei processi, .

Il whitepaper “Le potenzialità dell’AI a portata di clic” illustra nel dettaglio come l’AI integrata in TeamSystem Enterprise stia rivoluzionando la gestione aziendale. Un documento pratico che mostra, con esempi concreti, i benefici in termini di produttività, riduzione degli errori e supporto decisionale, offrendo alle imprese una guida per trasformare le attività quotidiane in un vero vantaggio competitivo.  

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Prendi posto, Milano torna a essere città per i lavoratori

In una città dove gli affitti crescono in fretta, il mercato immobiliare è sempre più feroce e gli stipendi insufficienti, ripensare il modo di abitare diventa una questione sociale prima ancora che urbanistica, per evitare di esclude fasce sempre più ampie di lavoratrici e lavoratori. A questa sfida prova a rispondere Prendi Posto, progetto della Cooperativa sociale Il Melograno, che a Milano sperimenta un nuovo modello di abitare accessibile fondato sulla collaborazione tra Terzo settore, istituzioni e imprese.

Nato nell’ambito del bando comunale Casa ai lavoratori, Prendi Posto mette al centro la rigenerazione del patrimonio pubblico sottoutilizzato: 120 appartamenti situati nei Municipi 5, 6, 7 e 8 saranno riqualificati e assegnati a chi lavora ma non può permettersi i prezzi del libero mercato. Gli alloggi, arredati e pronti all’uso, saranno disponibili attraverso piani di welfare aziendale, con canoni fino al 50% inferiori rispetto a quelli di mercato. Un modello che trasforma la casa da bene di consumo a strumento di inclusione e stabilità, restituendole una funzione sociale dentro la città.

Il progetto nasce da una alleanza tra pubblico e privato sociale: accanto alla cooperativa partecipano Homa, Condiviso e Lefebvre Giuffrè, con competenze complementari in housing, comunicazione e impresa. L’obiettivo è costruire un sistema replicabile e sostenibile, capace di dare risposta a chi rischia l’espulsione silenziosa dalla città per i costi abitativi insostenibili.

Per discutere di questi temi, il 21 novembre Palazzo Reale ospiterà il convegno “Prendi Posto, organizzato dalla Cooperativa sociale Il Melograno e promosso dalla rivista Persone&Conoscenze: riportare la convivenza al centro del disegno urbano”, un appuntamento pubblico in cui istituzioni, università, aziende e Terzo settore si confronteranno sul ruolo sociale dell’urbanistica e sulle nuove forme di abitare accessibile.

Dopo i saluti istituzionali dell’assessore Fabio Bottero e della presidente della cooperativa Rossella Pesenti, aprirà i lavori Massimo Bricocoli, direttore del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. Seguiranno due tavole rotonde dedicate con la partecipazione di esponenti del mondo accademico, dell’impresa e del giornalismo. Concluderà la mattinata Rossella Pesenti, richiamando il senso profondo del progetto: riportare la convivenza al centro del disegno urbano, perché abitare non sia più un privilegio, ma una possibilità condivisa per chi costruisce ogni giorno la città attraverso il proprio lavoro.

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Cyberattacchi, tira una brutta aria per la fabbrica

Non c’è da stare troppo sereni: i cyberattacchi continuano imperterriti a infestare le nostre aziende e la tendenza è globale a tal punto da scatenare allarmi più che giustificati. I dati emergono dalla 13esima edizione del rapporto Clusit, la seconda nel 2025, presentata in apertura del Security Summit Streaming Edition, l’appuntamento di fine anno che riunisce esperti del settore, aziende e professionisti per approfondire i temi più attuali della cybersecurity.

Nel 2025 sono stati 2.755 gli incidenti cyber rilevati. La tendenza globale del periodo mostra una crescita pari al 36% rispetto al secondo semestre del 2024 mentre in Italia, questo aumento è pari al 13% con 280 incidenti noti di particolare gravità, che costituiscono da soli il 75% degli eventi rilevati nel 2024.

I ricercatori Clusit hanno sciolto i nodi del primo semestre del 2025 evidenziando una certa incapacità per il nostro Paese a contenere questi attacchi. Sofia Scozzari, del Comitato Direttivo Clusit, ha parlato di una serie di attacchi che sono andati a buon fine che hanno avuto ripercussioni gravi anche a livello reputazionale oltre che tecnico e operativo. “Già l’ultimo semestre 2024 ci aveva stupito perché avevamo superato i 2mila attacchi, cosa che non era mai successa negli anni precedenti e, nel primo semestre 2025, stiamo sfiorando i 3mila”.

Aumentano le attività, ma anche intensità e frequenza

Negli ultimi cinque anni e mezzo si è assistito a una netto incremento delle attività ostili, con una crescente intensità e frequenza degli eventi: complessivamente, nel periodo che va dal 2020 al primo semestre 2025, sono stati registrati 15.717 incidenti, cioè il 61% di quelli verificatisi a partire dal 2011.

I ricercatori del Clusit hanno analizzato con occhio critico gli incidenti sotto diversi profili. Che gli andamenti degli attacchi segnino un aumento è ormai noto, ma la gravità degli incidenti è ciò che preoccupa maggiormente gli operatori: infatti, l’impatto medio stimato a livello globale è definito “critico” o “elevato” nell’82% dei casi, contro il 77% del totale nel 2024, dato che nel 2020 si assestava al 50%. L’Italia si colloca tra le realtà che più risultano incapaci di contenere gli attacchi: nel primo semestre dell’anno, il 10,2% degli incidenti a livello mondiale si è infatti verificato in Italia, contro il 9,9% del 2024, confermando una escalation dal 3,4% del 2021 e dal 7,6% del 2022.

Secondo gli autori del rapporto Clusit, la crescita in volume degli incidenti nel mondo è sostenuta da un aumento del fenomeno cybercrime: in valore assoluto, con 2.401 incidenti, nel primo semestre del 2025 si è verificato il 76% degli eventi registrati nell’anno 2024. I fenomeni di espionagesabotage e information warfare sono invece in calo rispetto al 2024, assestandosi a una quota di un incidente su 10, a dispetto dell’estensione dei conflitti già attivi nel 2024 e dell’acuirsi delle ulteriori problematiche nel primo semestre del 2025.

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Cybersecurity, il nemico è in casa

Viviamo vite sempre più connesse e ‘intelligenti’. Ma, all’interno delle nostre case, non siamo al sicuro. Sempre più occorre fare attenzione agli spostamenti nell’ambiente virtuale della nostra quoti…

Il boom di attacchi di hacker attivisti

Gli esperti del Clusit hanno evidenziato la complessità della reale attribuzione degli attacchi di information warfare; le tensioni in corso si riflettono, invece, in un aumento sostanziale degli incidenti classificabili come “Hacktivism”, che nei primi sei mesi del 2025 rappresentano, in valore assoluto, il 59% degli eventi di tutto il 2024. Per i non addetti ai lavori, con Hacktivism ci si riferisce alla tendenza a combinare l’attivismo con l’hackeraggio al fine di promuovere una causa. Lo scopo degli hacktivist è di creare consapevolezza e richiamare attenzione sulla loro causa e la violazione di un sito web può essere un mezzo efficace per rendere evidente al pubblico il proprio messaggio di denuncia o protesta.

Tra quelli avvenuti in Italia nei primi sei mesi del 2025, la maggioranza degli incidenti noti si riferisce proprio alla categoria “Hacktivism”, che si attesta al 54%, superando a livello nazionale il peso percentuale del cybercrime. Le organizzazioni italiane risultano vulnerabili a iniziative con finalità dimostrativa, di matrice politica o sociale. Il dato riferito ai primi sei mesi del 2025 rappresenta più di una volta e mezza il totale degli incidenti del 2024.

Tra le tecniche di attacco che rientrano in questa categoria ci sono quelle Dos o DDos. Secondo il sito Kinetikon.com, questi attacchi mirano a sovraccaricare i server di un servizio, una Rete o un sito web con un’elevata quantità di richieste, rendendoli inaccessibili agli utenti legittimi. Nel nostro Paese, gli attacchi DDoS sono passati dal 4% al 36%, evidenziando un aumento significativo delle campagne di hacktivism in Italia.

Governo e forze dell’ordine tra i più colpiti

Inoltre, i ricercatori del Clusit hanno scavato a fondo e hanno rilevato che, in Italia, il maggior numero di incidenti cyber nell’ambito governativo, militare, forze dell’ordine italiano, ha interessato il 38% degli eventi sul totale, che, in valore assoluto, si traduce in una quantità di incidenti pari al 279% rispetto al 2024. La crescita, rispetto allo stesso periodo dell’anno trascorso, è stata pari a oltre il 600%. E l’aumento del fenomeno Hacktivism e gli attacchi a scopo dimostrativo motivati da finalità politiche o geopolitiche e rivolti verso le istituzioni pubbliche e militari, possono spiegare, almeno parzialmente, questo dato.

Al secondo posto, ci sono gli incidenti in ambito trasporti e logistica (17% del totale) che hanno realizzato in sei mesi oltre una volta e mezzo il numero degli incidenti del 2024 e incrementato l’incidenza sul totale del campione, rispetto all’anno precedente, di 10 punti percentuali. “La crescita degli attacchi nel settore trasporti e logistica sembra riconducibile alla volontà degli attaccanti di mettere in crisi interi comparti dipendenti dalle filiere dei fornitori, colpendo più segmenti di mercato contemporaneamente e limitando la capacità di garantire approvvigionamento e distribuzione”, ha spiegato Luca Bechelli, del Comitato Direttivo Clusit.

A testimonianza di questa tesi c’è sia l’aumento degli attacchi di matrice attivista tramite tecniche DDoS in questi ambiti sia le violazioni ai danni di soggetti della Supply chain, che hanno avuto ripercussioni trasversali su numerose organizzazioni del settore. Sul fronte manifatturiero, il 13% degli incidenti avvenuti in Italia nel primo semestre del 2025, ha portato il nostro Paese a una quota significativa rispetto al resto del mondo che si è fermata all’8%.

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Its, senza soldi niente buoni tecnici

Mentre aspettiamo ancora il Piano Industriale nazionale al 2030, promesso con un ‘libro bianco’ dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy e atteso per febbraio 2025, la nostra economia industriale è tornata nuovamente in flessione. Intanto la Cina ha di recente presentato il piano quinquennale della economia industriale 2026-30. In sintesi, ciò che avrebbe dovuto fare anche l’Unione europea, come ben indicato nel Rapporto Draghi, per cercare di recuperare i suoi fattori di competitività anche nei confronti del gigante asiatico.

L’iniziativa cinese è molto importante, ma anche impressionante: deve farci riflettere e riportarci con preoccupazione alle cose di casa nostra e alle riforme scolastiche domestiche che da noi dovrebbero occuparsi, se non di ‘scienziati strategici, leader tecnologici e ingegneri di alto livello’, almeno di tecnici di buon livello che servirebbero con urgenza alla nostra economia, che necessiterebbe di una coraggiosa rivoluzione dell’istruzione tecnica e professionale per rimanere la seconda manifattura in Europa.

Le nostre riforme dell’istruzione tecnica e professionale – di cui scriviamo da tempo – sono la ridotta evidenza quantitativa e qualitativa di alcuni interventi nel nostro ordinamento scolastico che, per le necessità di cui avrebbe bisogno il Paese, richiederebbero ben altri ordini di grandezza quantitativi e qualitativi.

Non possiamo allora accontentarci della riforma 4+2, quella che è chiamata ‘filiera dell’istruzione tecnica e professionale’ e che riguarda una stima di 5.400 iscritti nell’anno scolastico 2025-26, proiettata a 10mila nel 2028, rispetto ai 250mila che si iscriveranno invece ai percorsi dell’istruzione tecnica e professionale quinquennale. Ho già rimarcato che l’interesse verso questa novità scolastica sembrerebbe maggiormente rivolto alla possibilità di acquisizione del diploma in quattro anni anziché in cinque, esito anche di una sottintesa, ma evidente, poca ‘voglia di studiare’ che, come si evince dai dati Istat sulle alte percentuali di non raggiungimento degli obiettivi di apprendimento minimi, affligge non pochi nostri studenti. Tra l’altro, si è fatto finta di niente quando, nell’ultimo rapporto del Censis, la scuola italiana è stata definita la fabbrica degli ignoranti.

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Stavolta vorremmo però capire la sostenibilità degli Istituti tecnologici superiori (Its), di cui ne abbiamo grande necessità, dopo l’esaurimento dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), osservando anche in tal caso che si tratta di un percorso ordinamentale di istruzione terziaria professionale che riguarda, al più, 20mila iscritti all’anno, ma che meriterebbe tante altre osservazioni.

Giova ricordare, che il numero totale dei diplomati annuali dei percorsi di istruzione secondaria superiore sono poco più di 500mila e di questi, circa 340mila, sarebbero gli immatricolati annui all’università (66%), mentre solo il 4% sono gli iscritti agli Its (il dato vale anche per il futuro). Già questa differenza percentuale enorme fa comprendere come la pari dignità concettuale e di finalità tra le due scelte opzionali dopo il diploma è assolutamente impossibile da realizzare.

C’è un altro dato che dovrebbe essere attenzionato, che evidenzia una anomala differente e alternativa opzione alle due scelte post diploma (università o Its). È il numero di giovani diplomati e laureati che abbandonano il Paese in cerca di opportunità migliori. Parliamo di alcune decine di migliaia di persone all’anno nella fascia di età 18-34 anni e il numero è in continua crescita.

Questa cifra è già in competizione con il numero degli iscritti all’Its e non è indice di un fatto episodico temporale, ma l’esito di un fenomeno sempre più ampio, in continuo e significativo aumento, che evidenzia come una parte consistente dei nostri giovani – sicuramente quelli dotati di un maggior potenziale – non ha più fiducia nel nostro mercato del lavoro e nelle prospettive future che offre (in merito a questo aspetto è bene ricordare la bassa percentuale di contratti a tempo indeterminato, 34%, quali esiti occupazionali alla fine dei percorsi degli Its).

Pochi diplomati agli Its e troppo precari

Mentre la Cina sta creando un sistema di attrazione di talenti globali, proprio attraverso il nuovo piano di sviluppo industriale, da noi mancano al tavolo delle riforme i soggetti che si devono occupare dell’employability e quindi del futuro delle prospettive dei nostri giovani.

Vorremmo però anche chiederci perché non si è messo finora mano alla riforma dei percorsi quinquennali, quelli che interessano il 98% degli iscritti all’istruzione tecnica e professionale. Si tratta dei percorsi ordinamentali che possono formare tecnici di alto livello o per lo meno di buon livello, in grado di possedere e applicare quei nuovi saperi utili per colmare i deficit prestazionali delle nostre imprese, messi in evidenza anche dal recente Rapporto del Cnel sulla produttività 2025.

I numeri della legge di Bilancio, anche nel piano triennale 2026-28, confermano che questo pezzo di ordinamento dell’istruzione terziaria professionale si attesterà poco oltre i 20mila iscritti all’anno. Ciò significa, estrapolando e proiettando i dati del monitoraggio Indire, non più di 15-16mila diplomati: tenendo conto dell’ultimo tasso di abbandono, (27,4%), vuol dire un’occupazione, dopo 12 mesi, pari all’84%; tuttavia, solo per 12-13mila il lavoro sarà coerente con il percorso di studi e appena 4-5mila studenti potranno firmare contratti a tempo indeterminato, mentre agli altri è destinata una forma contrattuale precaria.

Ci sarebbe anche da aggiungere che la verifica dello stato occupazionale, fatta solo dopo 12 mesi dalla fine dei percorsi formativi, non ci permette di misurare l’efficacia della coerenza percorso formativo-sbocco occupazionale, essendo i tempi medi di attesa per entrare nel mondo del lavoro – indipendentemente da un ulteriore percorso professionalizzante – già tra i sei e i 12 mesi. Se gli Its fossero correttamente progettati sulla base dei bisogni di alcuni segmenti della nostra economia – tra l’altro affetta dal grande mismatch tra bisogni e offerta di nuove competenze – lo sbocco occupazionale dei diplomati dovrebbe essere immediato.

Dal monitoraggio Indire emerge l’altissimo livello di precariato e quindi non si può essere d’accordo con la definizione di “successo occupazionale” espressa nella stessa reportistica. È proprio questa dimensione la causa principale dell’emigrazione delle decine di migliaia dei nostri migliori giovani, e quindi della mancanza di un sistema di attrazione verso le professioni tecniche e quindi per l’istruzione tecnica e professionale. E non è nemmeno solo colpa dell’orientamento scolastico…

L’insostenibilità degli Its dopo il Pnrr

Occorre invece ragionare sulla finanziabilità prossima degli Its dedotta dalla legge di Bilancio, dopo la fine del Pnrr. A settembre 2025, la rivista Orizzontescuola, ha pubblicato un articolo dal titolo: “Gli Its Academy crescono con 22mila iscritti: serve un finanziamento ordinario di 300 milioni o rischiamo la chiusura”. A comunicare i dati ufficiali e a lanciare l’allarme sulla fine anticipata del progetto Its è stato Guido Torrielli, Presidente di Rete ITS Italia, che ha affermato che secondo ricerche condotte da importanti enti specializzati, il fabbisogno potenziale di diplomati di istruzione superiore raggiungerebbe gli 80mila giovani nelle aree tecnologiche di competenza degli Its.

Circa l’entità del fabbisogno di finanziamento ordinario di 300 milioni è ragionevole dedurre che sia stato calcolato sulla base del costo standard per biennio e per studente, pari a 13.200 euro, previsto nel Pnrr per gli Its. Oggi, i dati della legge di Bilancio prevedono altre cifre: i finanziamenti ordinari per gli Its sono circa 98 milioni nel 2026, ridotti a 78 nei due anni successivi. Questi fondi servono per finanziare attività che prevedono 23mila iscritti nel 2026, 24 mila nel 2027 e 25 mila nel 2028: la speranza è di innalzare il tasso di occupazione dei diplomati all’88% dopo 12 mesi dalla fine del corso. Tuttavia non è stata indicata la percentuale di abbandono scolastico né la tipologia contrattuale; quest’ultima è indicativa del valore dell’employability, che dovrebbe essere il primo fattore attestante il buon successo occupazionale.

Ciò che colpisce – e che preoccupa – della sostenibilità futura degli Its, se i numeri fossero corretti e le cifre confermate, è invece l’entità ridotta dei finanziamenti ordinari previsti, che di fatto riducono per il 2026 il costo standard per biennio e per studente a soli 4mila euro e per il 2027 e 2028 a 3mila euro. Sarebbe sufficiente confrontare queste cifre con il valore medio delle tasse universitarie private – che non sono dimensionate su percorsi intensivi così lunghi come quelli degli Its – per capire la totale insostenibilità del progetto e confermare quindi il rischio di chiusura anticipato da Torrielli.

Ma c’è dell’altro. Se il presidente di Rete ITS Italia ha anche affermato che il fabbisogno potenziale di diplomati di istruzione superiore raggiungerebbe gli 80mila giovani nelle aree tecnologiche di competenza degli Its, dove andremmo a prendere questi diplomati se le previsioni numeriche del prossimo triennio sono distanti da queste cifre?

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La dimensione relazionale del Talent pool 

Lavorare nel settore siderurgico vuol dire muoversi tra due mondi: da una parte il contesto industriale, con le sue peculiarità e le sue sfide, dall’altra i bisogni e le aspettative delle persone. In questo equilibrio, le Risorse Umane svolgono un ruolo chiave, fungendo da ponte tra la direzione e chi vive il reparto, tra collaboratori junior e senior, tra candidati con potenziale e il loro possibile inserimento. Nei suoi processi di ricerca e selezione, il Gruppo Pittini adotta un approccio strutturato e totalmente gestito in house. Il processo di selezione è gestito dal team HR interno, responsabile di tutte le assunzioni del Gruppo (oltre 100 l’anno), senza supporti esterni e contando su una profonda conoscenza dell’organizzazione e delle sue persone.  L’obiettivo dell’attività di recruiting è individuare il profilo che meglio soddisfa i requisiti richiesti, considerando sia le sue caratteristiche professionali che personali. Un elemento distintivo è l’approccio one face to the customer: un unico referente HR accompagna il candidato lungo tutto l’iter, garantendo coerenza, trasparenza e costruzione di fiducia. 

La selezione, invece, segue uno schema predefinito ma adattabile alle esigenze. Inizia con un colloquio conoscitivo online, per presentare il ruolo ed esplorare esperienze e aspettative del candidato. Se positivo, prosegue con un secondo incontro in presenza con il responsabile di funzione, utile per approfondire le competenze e chiarire eventuali dubbi. Per alcune posizioni è prevista anche una visita agli impianti produttivi: un momento cruciale per conoscere da vicino l’ambiente di lavoro e superare i pregiudizi sul mondo siderurgico, oggi altamente automatizzato e tecnologico. Nel caso di progetti di Talent attraction come steel training (per neodiplomati) e steel engineer (per neolaureati in ingegneria), il processo si arricchisce di modalità di valutazione avanzate: assessment center, prove tecniche e linguistiche, test psicoattitudinali, in-basket ed esercitazioni. L’utilizzo di questi strumenti permette un’analisi ancora più approfondita del potenziale, di mettere alla prova i candidati su casi reali e osservarne le dinamiche di gruppo. 

Anche quando la selezione non si conclude con un’assunzione, la relazione costruita non si interrompe. I profili vengono inseriti in un archivio digitale interno, un vero vivaio di talenti da coltivare con cura e costanza. La relazione costruita diviene un asset e i candidati non selezionati vengono comunque considerati per future opportunità, sono ricontattati anche a distanza di tempo per aggiornamenti o nuove posizioni in linea. Il modello di Gruppo Pittini rappresenta un esempio concreto di selezione orientata al lungo periodo: l’HR è partner strategico e la sostenibilità aziendale si fonda sulla valorizzazione continua del capitale umano. Elementi prioritari in un contesto storico segnato da carenza di personale e mismatch di competenze sempre più difficili da colmare. 

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