Skip to main content
Seguici sui social:
Hai perso la password?

Autore: Lorenzo Sernicola

Università cattiva maestra?

L’università dovrebbe essere il luogo dove si coltiva pensiero critico, si trasmettono conoscenze profonde e si formano le competenze per rispondere alle sfide future del lavoro. Eppure, sembra che l’università abbia dimenticato il suo ruolo tra consulenza, spinoff e attività esterne che spesso ‘distraggono’ i docenti dalla didattica e dalla relazione educativa. Che cosa resta dell’università come istituzione che insegna, forma e guida? Se l’attività accademica si frammenta in mille micro-imprese individuali, chi custodisce la missione pubblica dell’istruzione superiore?

Ne parliamo nella puntata di venerdì 21 novembre 2025 di PdM Talk, il talk show settimanale di Parole di Management che va in onda in diretta streaming ogni venerdì dalle 12 alle 13 (la diretta è visibile sul sito del quotidiano, sul canale YouTube di Parole di Management e sul profilo ESTE di LinkedIn), partendo dal libro Università senza futuro – Tra compromessi e riforme possibili (Guerini e Associati, 2025).

In ogni puntata i rappresentanti della grande community di imprenditori e manager della casa editrice ESTE e di Parole di Management si confrontano sulle questioni di attualità – dagli avvenimenti della politica alle mutazioni della società – che hanno un interesse per chi gestisce e vive le organizzazioni.

Gli ospiti della puntata del 21 novembre 2025:

Luca Solari, Professore Ordinario di Organizzazione Aziendale, Università degli Studi di Milano e autore del libro Università senza futuro – Tra compromessi e riforme possibili (Guerini e Associati, 2025).

L’articolo Università cattiva maestra? proviene da Parole di Management.

PMI Day 2025: lunga vita a chi fa impresa

Il 14 novembre 2025 si celebra in tutta Italia la 16esima edizione del PMI Day, la Giornata nazionale delle Piccole e medie imprese (PMI), un’iniziativa promossa da Confindustria e in particolare dal Comitato della piccola industria, con l’obiettivo di avvicinare scuole, studenti e cittadini al mondo dell’impresa reale. L’intento è semplice, ma cruciale: sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza delle PMI, la spina dorsale dell’economia italiana (l’iniziativa ha ricevuto il patrocinio di: Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale; Ministero dell’Istruzione e del Merito; Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome).

Il PMI Day 2025, il cui tema è “scegliere”, si propone come un momento di confronto tra imprese, scuole, istituzioni e studenti, dove si fa ‘cultura operativa’ e si diffonde informazione sull’economia reale. In un mondo che celebra le grandi multinazionali, il PMI Day ci riporta alla realtà: sono le piccole e medie imprese, spesso invisibili, a tenere in piedi il Paese.

“Le piccole e medie imprese sono la colonna portante del nostro territorio: su 4,5 milioni di imprese, il 98% è di piccola e media dimensione. Il PMI Day abbraccia, quindi, tutta l’economia reale”, spiega Fabio Papa, docente di Economia alla 24Ore Business School e Coordinatore Scientifico del programma MBA part-time.

Il valore nascosto delle PMI

Dietro i numeri si nasconde una realtà spesso poco raccontata. Nonostante le PMI italiane diano lavoro al 70% della forza lavoro privata, restano nell’ombra dei grandi marchi internazionali. Molte di queste aziende, circa 83 su 100, sono a conduzione familiare, e proprio la famiglia rappresenta un elemento distintivo del modello imprenditoriale italiano: la famiglia non è un limite, ma un asset; è un ecosistema fondato sulla fiducia e sulla collaborazione, capace di generare valore economico e sociale.

“Siamo abituati a parlare di multinazionali come Google o Amazon, ma chi porta davvero avanti il Paese sono i cosiddetti campioni nascosti, gli underdog dell’economia italiana: migliaia di imprese familiari che creano occupazione e valore, anche se non finiscono mai in prima pagina”, osserva Papa.

Uno degli obiettivi del PMI Day è anche riabilitare la figura dell’imprenditore agli occhi dell’opinione pubblica. In Italia, infatti, chi fa impresa è spesso demonizzato: come spiega il docente, è visto come chi sfrutta le persone o non paga le tasse, ma la verità è che si tratta di una persona che ha avuto il coraggio di creare qualcosa, dando lavoro e ricchezza al territorio. L’imprenditore non è un nemico, ma un alleato della società.

PodcastBello e possibile

Bello e… possibile

Bello e…possibile. Storie di Made in Italy di qualità è il podcast che racconta l’Italia che produce valore. Un viaggio nelle imprese italiane che credono nella qualità, nel tempo e nella bellezza d…

Risolvere il passaggio generazionale

A proposito di imprese familiari e di imprenditori, il PMI Day è l’occasione per riflettere su uno dei nodi più delicati del sistema produttivo italiano: il passaggio generazionale nelle imprese familiari. Secondo Papa, il termine stesso è improprio: “Non si tratta di un passaggio, ma di una convivenza generazionale. Genitori, figli e spesso nonni condividono la gestione dell’azienda, e il segreto del successo è la comunicazione aperta. Nelle imprese familiari, purtroppo, si parla troppo poco”.

Secondo quanto risulta al docente, data la sua professione di comunicatore con i giovani, è il disagio che spesso vivono i figli degli imprenditori stretti in una morsa di pressioni psicologiche enormi. Si parla spesso di ‘figli di papà’, ma pochi si chiedono quale peso portino sulle spalle fin da bambini: “Il problema non è la loro pigrizia, ma il fatto che la società è ancora guidata da persone che non parlano il linguaggio dei giovani”, dice Papa.

C’è poi l’attualissima questione delle competenze, anche in questo caso legato alla figura dell’imprenditore e alla successione. Siamo sicuri che i capi azienda siano pure degli ottimi insegnanti? Non sempre è così e, a complicare il quadro c’è che anche la scuola non sta formando in modo adeguato tecnici e classe dirigente. Quindi, chi prepara davvero i giovani al lavoro? Secondo Papa, l’expertise oggi è concentrata nella generazione tra i 55 e i 75 anni, mentre tra i giovani si è persa la cultura del sacrificio. E, in questo caso, il docente punta il dito contro la società: “Ha creato un falso benessere, facendo mancare la voglia di conquistare le cose”.

L’articolo PMI Day 2025: lunga vita a chi fa impresa proviene da Parole di Management.

Meno diritti, ma più produttività: accettereste?

Si può barattare la produttività con i diritti? In Portogallo sembra che i lavoratori un’idea precisa se la siano fatta: il Paese sta assistendo a un’ondata di proteste contro una riforma del lavoro che punta ad aumentare la produttività proprio sacrificando alcuni diritti. A suscitare il malcontento è stato il Disegno di legge depositato dal Primo Ministro Luis Montenegro, a capo di un Governo (centrodestra) che ha sempre promosso l’aumento della competitività per le imprese.

Il punto nodale della riforma è questo: per gli imprenditori diventerebbe più facile licenziare senza causa perché a venire meno sarebbe – in caso di approvazione della norma – la necessità di fornire documentazione e testimonianze. In più alle aziende sarebbe consentito di creare una sorta di ‘banca del tempo individuale’ che renderebbe legale un turno giornaliero più lungo di due ore, fino a un monte annuale di 150 ore. Un’iniziativa che ricorda da vicino il caso della Grecia, dove il Parlamento ellenico ha di recente approvato una legge che prevede che i dipendenti del settore privato possano lavorare 13 ore consecutive per lo stesso datore di lavoro, con una retribuzione maggiorata del 40%.

Le proteste nelle piazze del Portogallo

A Lisbona decine di migliaia di persone – secondo alcune stime addirittura 100mila – sono scese in piazza per protestare. “È chiaramente un passo indietro per la condizione dei lavoratori e potrebbe portare a una perdita in fatto di sicurezza sui luoghi di lavoro”, ha dichiarato alla Reuters Miriam Alvares, una manifestante 31enne impiegata in una azienda sanitaria. “Parlo a nome dei tanti giovani con lavori precari e bassi stipendi, lavoratori il cui futuro sarà segnato da diritti sempre più compromessi”. Le ha fatto eco Madalena Pena, 34enne: “Il Governo sta invertendo la rotta in fatto di diritti dei lavoratori senza averlo preannunciato in campagna elettorale”.

A guidare la manifestazione l’organizzazione sindacale Cgtp, che ha chiamato a raccolta i cittadini accusando l’Esecutivo di favorire le grandi aziende, mentre i lavoratori a basso reddito faticano a sostenere il caro vita. Il Portogallo, infatti, è uno dei Paesi più poveri d’Europa. Le statistiche ufficiali parlano di oltre il 50% della forza lavoro con redditi inferiori a 1.000 euro al mese. Il salario minimo è pari a 870 euro, uno dei più bassi dell’Unione europea.

L’articolo Meno diritti, ma più produttività: accettereste? proviene da Parole di Management.

Lavoro: c’è chi entra (pochi) e chi esce (tanti)

Una nuova ondata di licenziamenti sta colpendo gli Usa. Da inizio 2025 si sono persi 1,1 milioni di posti di lavoro, raggiungendo i livelli della recessione degli anni 2008-09. L’aumento a ottobre 2025 è stato del 183% sul mese precedente e del 175% sul 2024, segnando il peggior ottobre per numero di licenziamenti dal 2003. Tuttavia, il tasso di disoccupazione è fermo al 4,3%, un livello relativamente basso.

I numeri sulle fuoriuscite comprendono anche le strette sugli organici di colossi come UPS (-48mila) e Amazon (-30mila). Si tratta di licenziamenti concentrati nei settori della tecnologia e del retail, quasi sempre dovuti alla volontà di tagliare i costi e all’introduzione dell’Intelligenza Artificiale, come ha riportato uno studio dell’azienda Challenger, Gray & Christmas. Solo in ambito tecnologico ammonterebbero a 141mila dall’inizio del 2025, in crescita del 17% rispetto allo stesso periodo del 2024. A cui si aggiungono perdite nei campi dell’informazione (-17mila) e dei servizi (-15mila)

“Non abbiamo mai visto dimensioni simili”, è stato il commento di John Challenger, CEO dell’azienda autrice dello studio, come ha riportato il Washington Post, di cui è proprietario lo stesso fondatore di Amazon, Jeff Bezos. L’economia nel frattempo risulta stabile, anche se non sono mancati gli scossoni: l’inflazione, i dazi, e ancora le nuove tecnologie…

Crescono i profitti delle imprese

Ma l’altro aspetto che incuriosisce, e non poco, è che a schizzare insieme con i licenziamenti sono stati i profitti delle imprese: ad aprile 2025, secondo la Federal Reserve, si registrava +3,25 miliardi di dollari. Le due facce della medaglia stridono, inevitabilmente. Perché tanti licenziamenti se gli affari vanno bene?

Un’idea sul perché la ha proposto Chen Zao, Chief Global Strategist di Alpine Macro. Intervistato dalla CBS, ha detto: “Si sta verificando qualcosa di completamente diverso dal passato, un boom di persone senza lavoro”. Al centro di tutto c’è senza dubbio l’AI: “Spinge la produttività di tantissime aziende e dell’economia in larga scala, e allo stesso tempo sopprime la richiesta di lavoratori”. Allora perché la disoccupazione non sale? “Da una parte ci sono i pensionamenti della generazione dei boomer, dall’altra un calo nell’immigrazione. È come se si ricreasse un nuovo equilibrio senza domanda di lavoro né richiesta”.

Non tutti però pensano che alla base di tutto ci sia lo zampino dell’AI. Secondo Art Papas, CEO of Bullhorn, compagnia di software, il taglio dei posti di lavoro dipende soprattutto dal fatto che si stanno ricalibrando le esigenze aziendali del dopo pandemia. “È più facile trovare nuovi lavoratori, per questo le aziende sono spinte a licenziare di più”. Ecco perché nei mestieri ‘entry level’, che sono quelli dove si assume di più, si concentrano di più i licenziamenti, ha osservato Papas.

L’articolo Lavoro: c’è chi entra (pochi) e chi esce (tanti) proviene da Parole di Management.

L’ultimo flop di Transizione 5.0

Il piano Transizione 5.0 è partito male ed è finito… peggio. Dopo lo scossone che sottolineava l’imminente chiusura del piano per esaurimento fondi (o per flop organizzativo e di gestione della procedura?) e le conseguenti polemiche delle associazioni di categoria e dei rappresentanti delle aziende dopo una così ferale notizia, di recente è intervenuto il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) che ci ha messo ‘una pezza’. Ma procediamo con ordine.

Dall’annuncio di inizio 2024 e quelli successivi, viene proprio da pensare che questo progetto – nobilissimo negli intenti, alimentato dai fondi dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e finanziato tramite il programma europeo NextGenerationEU per rispondere alle esigenze delle imprese per iniziare un approccio al digitale e alla transizione green – in realtà sia partito con il piede sbagliato.

Nel 2024 abbiamo assistito al balletto continuo tra segnalazioni di normativa complicata, circolare di oltre 100 pagine arrivata in pieno agosto e, dopo un continuo sollecito agli organi governativi preposti che mai scucivano novità, è arrivata la parvenza di una proroga mai confermata, ma sempre nell’aria; infine, ci sono state le periodiche semplificazioni (mai sufficienti) messe in campo dal Mimit durante l’autunno e l’inverno 2024.

Intanto i mesi passavano, lasciando sempre più disorientate e in difficoltà le imprese interessate: per le aziende non ci fu che sospendere ogni possibile approccio alla richiesta di questi fondi, con le realtà produttive tenute al cappio da un sistema burocratico estremamente complicato. Da quel momento: meno accesso ai fondi e, per conseguenza, casse piene di denaro mai erogato alle imprese stesse.

Un disastro annunciato

Un flop, verrebbe da dire, che si è concretizzato sempre di recente con la doccia fredda della chiusura anticipata del Piano 5.0, lasciando l’amaro in bocca a tutti coloro che speravano in un approccio semplificato, come fu per Industria 4.0 (nel frattempo diventata Transizione 4.0). E, ironia della sorte, quest’ultimo ha invece continuato a dare i suoi frutti.

Ma anche sul fronte 4.0 c’è stato un altro colpo di scena che ha regalato sorrisi amari ai numerosi imprenditori che avevano riposto speranze proprio su questa iniziativa. È dell’11 novembre 2025, l’ennesima comunicazione ministeriale che annuncia la fine dei fondi per Transizione 4.0. Ma dove sta la beffa? Tutta ‘colpa’ del piano Transizione 5.0 che, a detta di fonti ministeriali, ha subito di recente una profonda accelerazione portando con sé anche la super richiesta degli incentivi 4.0 che, malauguratamente, sono terminati in breve tempo.

Tuttavia, vi è di più. Il Mimit ha voluto cucire l’ennesima pezza sopra questa vicenda e ha lasciato in sospeso l’eventualità che i fondi rispuntino. Infatti, è stato scritto in una nota: “Le imprese possono continuare a inviare comunicazioni di prenotazione. Nel caso di nuova disponibilità di risorse, il Gestore dei servizi energetici – Gse spa ne darà comunicazione alle imprese secondo l’ordine cronologico di trasmissione delle domande”. Come a dire: care aziende, provateci ma – è questo il lecito dubbio – non è detto che ci saranno i fondi.

A caccia di fondi

La svolta, però, è arrivata nella settimana del 10 novembre 2025: il Mimit ha diramato una nota che ha tutta l’aria di voler calmare gli animi. Il ministero ha spiegato: “Nel fine settimana e nella giornata di ieri, risultano caricati sulla piattaforma Gse ulteriori 742 progetti, per un valore complessivo di 231.084.152,50 euro. Tali progetti si aggiungono ai 12.461 già conteggiati al 7 novembre, prima dell’annuncio dell’esaurimento delle risorse, per un ammontare complessivo di circa 2,9 miliardi di euro. Per questi nuovi progetti, come già precisato dal Mimit nel comunicato stampa del 7 novembre, il Governo sta operando per reperire le risorse aggiuntive necessarie al soddisfacimento delle domande. La presentazione dei progetti proseguirà fino al 31 dicembre e le richieste saranno valutate secondo l’ordine cronologico di presentazione”.

Verrebbe da tirare un sospiro di sollievo, ma alla luce degli eventi è lecita un po’ di diffidenza e la tendenza a non credere fino in fondo al futuro (incerto) del programma e a immaginare come potrebbe finire: “Dal 1 gennaio 2026 sarà invece operativo il nuovo Piano Transizione 5.0, in piena continuità operativa con l’attuale misura”. Ecco appunto, speriamo che la “continuità” non sia solo burocratica…

L’articolo L’ultimo flop di Transizione 5.0 proviene da Parole di Management.

E adesso il gender gap ce lo spiega Ronaldo?

Poteva essere un fenomeno isolato, quello della dichiarazione di Cristiano Ronaldo che parlando di come la moglie, Georgina Rodríguez, si prende cura di lui, della famiglia e della casa, ha detto: “Gli uomini non possono occuparsene, onestamente”. Eppure l’uscita del campione portoghese – che ha scatenato ampie polemiche con accuse di maschilismo – nasconde un ritorno al passato che emerge da alcune rilevazioni sul lavoro femminile negli Usa.  

A scriverne è stato l’Economist che nell’articolo dal titolo “Why are American women leaving the labour force?”, per analizzare il calo delle donne nel mondo del lavoro, ha parlato di cambiamento a livello sociale e culturale. Il settimanale britannico ha spiegato che per capire ciò che sta accadendo basta fare un giro su Tik Tok: sul social corre il fenomeno delle Tradwives”, cioè mogli e madri perfette, che rimandano ai vecchi ruoli novecenteschi della donna.

Frena la crescita del tasso di occupazione femminile

Quanto sta accadendo in Usa è un’utile cartina di tornasole del fenomeno, visto che proprio Oltreoceano si erano toccate quote di occupazione femminile molto alte. E così, se ad agosto 2024 negli Usa era stato registrato un tasso di donne occupate pari al 57,7%, l’ultima rilevazione ha indicato che si è arrivati al 56,9%: l’equivalente di circa 600mila donne in meno nel mercato del lavoro.

Per capire meglio lo scenario è interessante osservare gli andamenti occupazionali delle donne nelle epoche passate. Nel corso degli ultimi 80 anni, almeno da quando l’Ufficio americano di statistiche del lavoro (l’America’s bureau of labour statistics) ha cominciato a raccogliere dati suddivisi per genere, si è radicata una certezza: le donne hanno ridotto il gap rispetto agli uomini. Se nel 1948 solo il 32% delle statunitensi risultava occupata o in cerca di lavoro; nella stessa condizione si trovava più del doppio – l’87% – dei colleghi maschi.

Alla fine degli Anni 90 le percentuali erano così diventate: 60% delle donne nella forza lavoro, contro il 75% degli uomini. Il gap ha proseguito la sua discesa nel corso degli anni 2000 e nel decennio successivo, finché non è arrivato il Covid 19, con la conseguente contrazione del numero di occupati. Tuttavia, al principio del 2025, il gap di genere si era ridotto di nuovo fino ad appena 10 punti, il più basso mai registrato. Come mai allora la tendenza si è invertita? Quale potrebbe essere il motivo di una tale inversione di tendenza?

Le donne con figli escono dal lavoro

La risposta più ovvia è quella di un cambiamento nella natura dell’economia nordamericana. Ma non nel senso che le industrie in cui sono più presenti le donne siano in difficoltà. I dati infatti suggeriscono altro. I settori più colpiti dalla crisi economica risultano il Retail, la Manifattura e i Trasporti, dove la presenza tra uomini e donne è bilanciata e anzi, tende a concentrare più i primi. Al contrario i settori tipicamente femminili come l’educazione e la sanità stanno assumendo di più.

È per questo che l’Economist ha proposto il fenomeno delle “Tradwives”, non escludendo neppure che, di mezzo, possa esserci la necessità delle neomamme di lasciare il lavoro per i costi non proprio abbordabili della cura dei bambini. Quest’ultima ipotesi è suffragata dai numeri: secondo l’Istituto di statistica Usa (Census Bureau), la partecipazione al lavoro delle 25-54enni con figli sotto i cinque anni è calata rispetto al picco post pandemico. E qui c’è da sottolineare un altro trend: il calo non riguarda tutte.

C’erano 7,8 milioni di lavoratrici madri di bambini Under 2 fino a due anni fa, cifra che ora è salita a 7,9; la contrazione sembra riguardare di più le giovani, specie chi ha rimandato il matrimonio nel corso della pandemia. Non a caso per le nozze c’è stato un vero e proprio boom nel 2022. Tutto sembrerebbe insomma appuntare in una direzione: negli Usa c’è una sorta di piccolo baby boom post pandemico. Il che spiegherebbe la fuoriuscita dal lavoro di molte donne.

C’è un altro punto. Ed è lo Smart working. Adesso che il lavoro in presenza è tornato a essere richiesto, le giovani che hanno imparato a lavorare da remoto, conciliando l’attività professionale con la cura dei piccoli e della casa, saranno disposte a rientrare in ufficio, e quindi nella forza lavoro? Speriamo che non ci si debba affidare a Ronaldo per avere la risposta…

L’articolo E adesso il gender gap ce lo spiega Ronaldo? proviene da Parole di Management.

Cambio ai vertici per Biofarma Group, Alberto Urli nuovo CEO

Cambio alla guida di Biofarma Group, uno dei principali gruppi globali attivi nei settori nutraceutico e cosmetico, con 450 milioni di euro di fatturato, oltre 1.500 dipendenti e nove stabilimenti tra Europa, Stati Uniti e Cina. Il Consiglio di Amministrazione ha nominato Alberto Urli nuovo Amministratore Delegato del gruppo.

Entrato in Biofarma nel 2022, Urli ha finora ricoperto il ruolo di Chief Operating Officer, guidando il processo di integrazione internazionale e coordinando due importanti investimenti strategici in Francia e negli Stati Uniti. La sua nomina, sottolinea l’azienda, rappresenta una scelta di continuità operativa ma anche di accelerazione del piano industriale del gruppo, oggi presente in oltre 75 Paesi.

Il fondatore Germano Scarpa, che ha ricoperto ad interim la carica di CEO negli ultimi quindici mesi, assume ora la presidenza del gruppo, con il compito di garantire la stabilità della governance e mantenere vivo il legame con i valori originari della società, fondata quasi quarant’anni fa insieme a Gabriella Tavasani.

Contestualmente, Biofarma rafforza la propria struttura manageriale con l’ingresso di Jonathan Arnold nel ruolo di presidente della holding. Manager di lunga esperienza, Arnold ha maturato incarichi di vertice in gruppi internazionali come Catalent e Patheon. “Quando un’azienda sceglie il proprio nuovo CEO dall’interno, manda un messaggio forte: l’ambizione può diventare realtà e la crescita personale è un valore autentico. La nomina di Urli non è solo una scelta di continuità, ma porta nuova energia e rappresenta un catalizzatore che darà slancio all’intera organizzazione, avvicinandoci ancora di più ai nostri clienti”, ha commentato Scarpa.

L’articolo Cambio ai vertici per Biofarma Group, Alberto Urli nuovo CEO proviene da Parole di Management.

Marsocci Amministratore delegato del Gruppo Armani

Cambio ai vertici del Gruppo Armani: il Consiglio di Amministrazione ha nominato Giuseppe Marsocci nuovo Amministratore Delegato con effetto immediato e il suo contestuale ingresso nel CdA. La decisione, approvata su proposta unanime della Fondazione Armani, si inserisce nel solco della continuità che ha sempre contraddistinto la visione del fondatore.

Figura di riferimento interna, Marsocci può vantare oltre 35 anni di esperienza nel settore della moda e del lusso, di cui 23 trascorsi all’interno del Gruppo Armani in ruoli di crescente responsabilità tra Milano e le sedi estere. In particolare, ha guidato per diversi anni la filiale americana del gruppo come CEO delle Americhe, dopo aver ricoperto posizioni chiave nelle aree commerciali e di brand management. Negli ultimi sei anni, Marsocci ha affiancato direttamente Giorgio Armani nel ruolo di vicedirettore generale e Global Chief Commercial Officer, oltre a presiedere diverse società del gruppo, tra cui Giorgio Armani Retail , e a sedere nei consigli di amministrazione di numerose controllate internazionali.

Con la nuova nomina, Marsocci riporterà al CdA presieduto da Leo Dell’Orco, mentre Silvana Armani assumerà la carica di vicepresidente. “Prenderà la sua forma definitiva al compimento delle procedure testamentarie, ma si è voluto procedere subito con la nomina dell’Amministratore Delegato per garantire continuità nella gestione del gruppo”, è la nota ufficiale del Consiglio.

L’articolo Marsocci Amministratore delegato del Gruppo Armani proviene da Parole di Management.

Cantiere Navale Vittoria, Cavazzana nuovo Amministratore Delegato  

Nuova fase per lo storico Cantiere Navale Vittoria (CNV), simbolo dell’industria polesana. Nel corso dell’assemblea odierna, i soci hanno nominato Roberto Cavazzana nuovo amministratore delegato Operations, avviando così la seconda fase del piano di rilancio industriale. Cavazzana, che già ricopriva il ruolo di amministratore finanziario, subentra all’avvocato Francescomaria Tuccillo, che ha guidato l’azienda nella fase di riorganizzazione seguita all’acquisizione.

Con questa nomina, la proprietà intende rafforzare la governance e il controllo dei processi interni, puntando al consolidamento produttivo e gestionale e al rilancio competitivo del cantiere sui mercati nazionali e internazionali. L’operazione segna l’inizio di una nuova fase di sviluppo e innovazione, con l’obiettivo di valorizzare le competenze storiche del Cantiere Navale Vittoria e di proiettarle verso le sfide della cantieristica moderna, dall’innovazione tecnologica alla sostenibilità produttiva.

Fondata nel 1927, la realtà adriese rappresenta una delle eccellenze industriali del Polesine, con una lunga tradizione nella costruzione di imbarcazioni civili, militari e di soccorso. Oggi la nuova governance punta a consolidare questo patrimonio di esperienza, trasformando il cantiere in un polo navale di riferimento per innovazione e affidabilità, mantenendo saldo al tempo stesso il legame con il territorio di Adria.

L’articolo Cantiere Navale Vittoria, Cavazzana nuovo Amministratore Delegato   proviene da Parole di Management.

Ferrari nuovo amministratore di Valtecne

Valtecne, azienda valtellinese specializzata nella meccanica di alta precisione per dispositivi medicali e applicazioni industriali, rafforza la propria governance e guarda con decisione alla crescita nel settore sanitario. Durante l’Assemblea Ordinaria degli Azionisti, la società ha deciso di aumentare il numero dei consiglieri da cinque a sei, con l’obiettivo di ampliare le competenze strategiche e manageriali alla guida del gruppo.

Nel nuovo assetto entra Luigi Ferrari, manager con una lunga esperienza nel settore MedTech. Per oltre dieci anni ha guidato LimaCorporate, storica azienda italiana di impianti ortopedici oggi parte del gruppo americano Enovis, contribuendo alla sua espansione internazionale. In precedenza ha ricoperto ruoli di vertice in Orthofix Medical, società quotata al Nasdaq. Ferrari resterà in carica fino all’approvazione del bilancio 2025 e affiancherà il management anche in veste di senior advisor, offrendo supporto nella crescita industriale, nello sviluppo commerciale e nell’espansione sui mercati esteri. A testimoniare il proprio impegno nel progetto, Ferrari ha inoltre investito in KPM S.r.l., la holding che controlla Valtecne, diventando così anche parte del capitale del gruppo.

“Siamo entusiasti di accogliere l’ingegner Ferrari. Il suo ingresso porta esperienza e visione in un momento cruciale per lo sviluppo nel settore medicale, una delle nostre principali priorità strategiche. La sua partecipazione come investitore conferma la fiducia nel potenziale di crescita di Valtecne”, ha dichiarato Paolo Mainetti, amministratore delegato di Valtecne. “Sono felice di mettere la mia esperienza al servizio di un’azienda che ha dimostrato grande solidità e ambizione. Valtecne ha una visione chiara e una forte attenzione alla qualità, basi ideali per crescere e consolidarsi nel mercato dei dispositivi medicali”, ha commentato Ferrari. Con questo nuovo ingresso, Valtecne rafforza ulteriormente il proprio percorso di sviluppo, puntando a consolidare la presenza nel settore medicale e a sostenere una crescita sostenibile nei prossimi anni.

L’articolo Ferrari nuovo amministratore di Valtecne proviene da Parole di Management.

Tetra Pak, celebra 60 anni di attività in Italia

In Italia è nata nel 1965 quando, dalla Svezia, partì l’input di aprire una filiale nel nostro Paese. Fu scelta la cittadina di Rubiera, in provincia di Reggio Emilia, ancora oggi operativa, per installare il primo insediamento di quella che, anche in Italia, è diventata l’azienda conosciuta, a livello mondiale, nella lavorazione degli alimenti e nelle soluzioni di confezionamento.

Nel 2025 l’azienda celebra i suoi primi 60 anni in Italia: sono cinque le sedi operative in Italia di Tetra Pak (Rubiera, Modena, Sezzadio, Ambivere, Monza) che danno lavoro a 1.700 dipendenti, mentre la produzione serve milioni di consumatori. Insomma, chi non ha mai acquistato un prodotto alimentare fresco o confezionato – latte, succhi di frutta, ecc. – e non si è accordo della scritta “Tetra Pak” sulla confezione?

Secondo una nota della società, i numeri parlano chiaro: oltre 120 clienti attivi per 5,2 miliardi di confezioni all’anno e più di 620 impianti installati sul territorio nazionale. A livello globale, invece, 100 milioni di euro investiti ogni anno in attività di ricerca e sviluppo al fine di ricercare sempre soluzioni sostenibili e materiali rinnovabili certificati, come per esempio, progetti che spaziano dalle barriere a base carta per ridurre l’uso di alluminio.

Dal 1965 attenzione a sostenibilità e sicurezza

Oggi, in media, i cartoni per bevande sono composti per il 75% da carta proveniente da fonti certificate e Tetra Pak sta sperimentando soluzioni per aumentare ulteriormente la quota rinnovabile e investendo 40 milioni di euro nella filiera del riciclo, collaborando con partner e istituzioni per raggiungere l’obiettivo europeo del 70% di riciclo dei cartoni entro il 2030. In Italia, l’azienda sostiene attivamente iniziative per incrementare la raccolta differenziata e favorire lo sviluppo del mercato dei materiali riciclati, sia per la componente cellulosica, sia per quella in alluminio e plastica (polyAl).

Per la storica ricorrenza dei 60 anni, la società ha scelto un titolo significativo: “60 anni di futuro”, che esprime l’idea di guardare sempre avanti, cercando di anticipare le trasformazioni del settore agroalimentare e creare valore come parte di un ecosistema che vuole evolvere.

A proposito di evoluzione, tornando al 1965, è utile ricordare lo ‘sbarco’ in Italia con la Converting Factory, un punto di partenza che, di fatto, ha rivoluzionato il mondo del confezionamento: basti pensare alla confezione asettica che ha portato sicurezza e qualità alimentare nelle case degli italiani. “Rubiera rappresenta un ecosistema unico, dove innovazione e operatività convivono ogni giorno”, spiega Federico Mazza, Direttore della Converting Factory di Rubiera. “Qui costruiamo il futuro, investendo in sicurezza, qualità, servizio al cliente e persone, che sono il vero motore della nostra crescita”.

Guardare avanti con determinazione

Ma come si è evoluto il mondo Tetra Pak? Per tappe, come giusto fare, senza fare passi ‘più lunghi della gamba’. L’apertura del sito dedicato alle macchine confezionatrici a Modena, la nascita del centro di R&D e lo sviluppo di soluzioni che hanno accompagnato l’evoluzione dei consumi senza trascurare la sostenibilità e la gestione degli sprechi.

L’Italia è uno dei principali mercati del gruppo, grazie a un ecosistema che integra dimensione produttiva, attività commerciali e servizi. Oltre al packaging c’è di più. Infatti, Tetra Pak offre impianti di trattamento, servizi di manutenzione e aggiornamento, formazione avanzata e strumenti digitali per migliorare le performance. Oltre a portare sicurezza alimentare sulle tavole degli italiani e, al contempo, riduzione dell’impatto ambientale grazie a tecnologie come la Water filtering station che consente di abbattere il consumo di acqua fino al 95% nelle linee di riempimento.

“Celebrare questo anniversario significa guardare avanti con rinnovata determinazione”, ha affermato Paolo Maggi, Presidente e Managing Director Tetra Pak South Europe. “Il nostro obiettivo è continuare a essere un partner strategico per la filiera agroalimentare italiana, rafforzando la collaborazione con tutti gli attori del settore e contribuendo agli obiettivi condivisi di crescita e sostenibilità”.

L’articolo Tetra Pak, celebra 60 anni di attività in Italia proviene da Parole di Management.

Addio ad Alberto Bertone, l’uomo dell’Acqua Sant’Anna

È morto nella notte di martedì 11 novembre 2025, a causa di una malattia contro la quale lottava da mesi, Alberto Bertone, Amministratore Delegato di Acqua Sant’Anna: l’imprenditore aveva 59 anni (classe 1966) ed era nato a Moncalieri; si era laureato in Scienze Politiche con indirizzo economico e aveva conseguito un Master MBA in Pianificazione del mercato immobiliare presso il Politecnico di Torino. Ha legato il suo nome alle Fonti di Vinadio Spa, proprietaria del marchio Sant’Anna: aveva infatti fondato l’azienda nel 1996 dopo aver collaborato a lungo con il padre Giuseppe nella gestione delle attività di famiglia.

In passato Bertone era stato intervistato dalla rivista Sistemi&Impresa, il magazine dedicato alle tecnologie a impatto organizzativo della media company ESTE, editore anche del nostro quotidiano. Riproponiamo alcuni estratti (rivisti) dell’intervista dal titolo “Acqua Sant’Anna, leader di mercato grazie a percorsi diversi e innovativi”, realizzata da Luca Bastia.

Dalle scelte azzardate al successo aziendale

Una storia particolare quella di acqua Sant’Anna. La società è nata nel 1996 e si è inserita in un mercato presidiato da numerose imprese nazionali e multinazionali con marchi già ampiamente consolidati: tuttavia, in pochi anni, Fonti di Vinadio diventa leader nazionale del settore delle acque minerali, grazie a una costante ricerca di innovazione e alla capacità imprenditoriale dei suoi fondatori, la famiglia Bertone. Famiglia che dagli Anni 50 opera nel settore dell’edilizia.

Anche questo è un elemento che rende particolare la storia dell’azienda perché una delle chiavi del successo, come sottolineava provocatoriamente Bertone, risiede proprio nella scarsa conoscenza del settore acque minerali: “L’essere ‘ignoranti’, il non avere dei pregressi in questo ambito è stata una fortuna perché ci ha dato la possibilità di percorrere nuove strade, di costruire uno stabilimento diverso da come lo avevano gli altri operatori del settore”.

Giuseppe Bertone (scomparso nel 2008) è l’imprenditore edile cui si affiancano negli Anni 90 i figli Fabrizio e Alberto. Nel 1995 Giuseppe viene a conoscenza della qualità superiore dell’acqua che sgorga nelle valli che sovrastano Vinadio nelle Alpi Marittime, in provincia di Cuneo, e decide di intraprendere questa nuova avventura.

Alberto, che aveva ereditato dal padre l’intraprendenza e il gusto per le sfide impossibili, lo convince ad affidargli lo sviluppo del nuovo progetto e dal 1996, anno in cui nasce Fonti di Vinadio, si dedica anima e corpo alla realizzazione di un obiettivo ambizioso: portare quest’acqua sulla tavola di tutti gli italiani. L’obiettivo è stato raggiunto, anzi superato, perché se nei primi anni di attività Fonti di Vinadio vendeva tante bottiglie quanti sono gli italiani, successivamente è arrivata a vendere in un anno tante bottiglie quanti sono gli abitanti d’Europa.

L’ignoranza per noi è stata una fortuna”, diceva Bertone. “È tutta la vita che predico l’ignoranza, perché ci consente di continuare a provare nuove strade che altri, che conoscono la materia, non tentano; sperimentando cose innovative ‘ritenute impossibili’, nel caso si ottenga il risultato cercato si fa la differenza”.

Seguendo questa filosofia, l’azienda è stata tra le prime ad abbassare il collo della bottiglia, togliendo tanti grammi nella confezione, un piccolo risparmio economico che, moltiplicato per un numero elevato di bottiglie, porta a un vantaggio finanziario notevole in un anno. È stata la prima anche a usare il laser e non l’inchiostro per codificare le bottiglie e ora è uno standard utilizzato da tutti. Non solo: è stata tra le prime a utilizzare le bottiglie a sezione quadrata e così nello stesso spazio era possibile a caricare molte di più (25%) abbassando i costi di trasporto. La sua lungimiranza è una grande perdita per tutto il sistema economico italiano.

L’articolo Addio ad Alberto Bertone, l’uomo dell’Acqua Sant’Anna proviene da Parole di Management.