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Competenze digitali, il solito buco nero dell’Italia

L’Italia continua a inseguire la domanda di competenze ICT, senza però riuscire a colmare il divario che separa il Paese dagli standard europei. La distanza fra fabbisogno delle imprese e nuovi professionisti disponibili appare anzi in crescita, mentre il mercato del lavoro digitale evolve rapidamente, spinto dall’adozione massiccia dell’Intelligenza Artificiale (AI), in particolare della sua versione generativa. È quanto emerge dall’Osservatorio sulle Competenze Digitali 2025, presentato il 18 novembre 2025 a Milano da Aica, Anitec-Assinform e Assintel con Talents Venture.

Secondo lo studio, solo nell’ultimo anno su LinkedIn sono stati pubblicati 136mila annunci ICT, a fronte di 73mila nuovi professionisti che entrano sul mercato. Si tratta di una sproporzione che fotografa un Paese in cui la formazione cresce, ma non abbastanza per sostenere l’accelerazione tecnologica.

Il dato più allarmante arriva dal confronto con l’Europa. Nel nostro Paese, gli occupati ICT rappresentano appena il 4% del totale, contro una media europea del 5%. Una differenza che vale 236mila professionisti: tanto servirebbe all’Italia per allinearsi ai principali partner comunitari. Una carenza che affonda le radici nella debolezza storica dell’orientamento scolastico.

“Se non guidiamo i giovani verso le professioni digitali fin dalla scuola primaria, continueremo a inseguire un fabbisogno che cresce più rapidamente della nostra capacità di formare risorse”, ha avvertito Paola Generali, Presidente di Assintel. “Il digitale deve essere introdotto presto, con esempi concreti e con una rete nazionale di centri di orientamento che accompagni studenti e lavoratori nelle scelte formative e professionali”.

Spazio solo alla formazione dei più giovani? No di certo, mette in guardia Generali, sottolineando come la formazione vada fatta anche ai genitori: “Oggi è ancora troppo scontato interrogare un bambino, figlio di ingegneri, e sentirgli dire che vorrà iscriversi a Ingegneria. Auspico che anche il figlio del panettiere dica che vorrà iscriversi alla stessa facoltà”.

Prompt Engineering: la competenza della nuova era digitale

Venendo alla ricerca, il dato più sorprendente del rapporto riguarda il Prompt Engineering, che registra una crescita del 112% negli annunci ICT. Una percentuale che certifica l’ingresso dell’AI Generativa nella quotidianità delle imprese: dall’automazione dei processi alla progettazione di soluzioni creative, passando per assistenza, data analysis e sviluppo software.

Le aziende non trattano più l’AI come un prototipo, ma come un’infrastruttura operativa”, ha spiegato Ludovica Busnach, Vicepresidente Anitec-Assinform con delega alle Digital Skills. “Il boom del Prompt Engineering mostra chiaramente che servono figure capaci di dialogare con i modelli generativi e tradurli in valore concreto per il business”.

Il Prompt Engineer diventa così uno dei profili più richiesti, spesso ricercato insieme con competenze di sviluppo, Data management e AI governance. E la crescita è destinata a proseguire, poiché il report sulle competenze segna un incremento trasversale dell’intero comparto AI, anche nelle funzioni manageriali e di progetto.

Questi sono i punti fermi che hanno sottolineato anche Pier Giorgio Bianchi, Amministratore Delegato e Co-fondatore e Carlo Valdes, Head of Data Analytics, Technology and Insights di Talents Venture i quali hanno evidenziato come l’ascesa del Prompt Engineering rispetto alla caduta delle competenze su ChatGpt da parte delle aziende sia, per loro, una fase di maggior presa di consapevolezza. È per questo che oggi le aziende si sono riviste e hanno capito l’importanza dell’integrazione, al loro interno, di strumenti di AI Generativa.

La cybersecurity e lo sviluppo restano pilastri

Accanto alle nuove professioni legate all’AI, la domanda resta altissima per i ruoli più consolidati, per i quali gli annunci crescono del 70% nel periodo analizzato: sviluppatori software, IT project manager, software engineer e soprattutto cybersecurity engineer.

L’Italia, tuttavia, continua a mostrare una fragilità strutturale nelle competenze digitali essenziali. L’indagine Aica inclusa nell’Osservatorio e condotta su 24mila persone, rileva che solo il 30% degli intervistati raggiunge la sufficienza nell’uso del computer e appena il 17% nelle applicazioni Office.

Oltre l’85% delle persone coinvolte nella ricerca non ha competenze adeguate negli strumenti digitali di base”, ha osservato Antonio Piva, Presidente di Aica. “La distanza tra ciò che serve alle imprese e ciò che possiede gran parte della popolazione attiva resta ampia, e in alcuni casi addirittura aumenta”. Piva ha sottolineato la necessità di diffondere standard riconosciuti come International certification of digital literacy (Icdl), certificazione internazionale che attesta le competenze digitali di base e avanzate, e di promuovere percorsi formativi accessibili e continuativi.

Il rapporto ha messo in luce anche un problema di attrattività del mercato italiano. L’analisi di 10mila annunci ICT pubblicati nel 2025 rivela che il 74% non riporta la retribuzione, mentre il 55% non menziona alcun benefit. Solo una minoranza ha segnalato flessibilità o possibilità di lavoro da remoto. Una carenza comunicativa che penalizza la competitività delle imprese italiane, soprattutto in un contesto globale in cui i professionisti ICT possono scegliere tra molte opportunità, spesso più trasparenti e meglio retribuite.

Università telematiche: forza silenziosa dei laureati ICT

Sebbene il sistema formativo italiano sta ampliando l’offerta ICT, ma la crescita resta lenta rispetto alle esigenze del mercato. Negli ultimi 10 anni i corsi di laurea dedicati all’informatica sono passati da 670 a 850, ma ciò che sorprende è il contributo crescente delle università telematiche Secondo l’Osservatorio, il 9% di tutti i laureati ICT italiani proviene oggi dagli atenei online. Una quota in aumento, che evidenzia il ruolo sempre più rilevante di un modello capace di intercettare nuove fasce di popolazione: studenti lavoratori, residenti in territori periferici, giovani che necessitano di maggiore flessibilità organizzativa.

Bianchi e Valdes hanno sottolineato come questa trasformazione rappresenti una chance per ridurre la carenza cronica di talenti tech: “Il digitale deve diventare accessibile, continuo e modulare. Gli atenei telematici stanno offrendo una risposta concreta a una domanda formativa che non troverebbe sbocco nei percorsi tradizionali”. Anche gli ITS Academy mostrano una crescita importante (+40% dei percorsi nell’area ICT), ma il numero dei diplomati resta troppo basso per incidere in modo significativo. Insomma, di strada ce n’è ancora da fare.

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Ah, che bello il lavoro… pure in carcere o’ sanno fa

Tra le rivoluzioni post pandemiche c’è stata quella dello Smart working. Più in generale la principale conseguenza dell’impossibilità di incontrarsi dal vivo è stata quella di rendere normale, accessibile a tutti, il collegamento da remoto. Anche per lavorare: abbiamo imparato che non serve più, necessariamente, essere fisicamente presenti. Il fenomeno è arrivato perfino nelle mura carcerarie.

Quando in una prigione del Maine, Stati Uniti, sono cominciati ad arrivare i primi schermi per assistere, in cella, a lezioni online e svolgere compiti, è spuntata un’idea: non si potrebbero usare i laptop per lavorare da remoto per aziende esterne e percepire un reale stipendio? Il Maine è uno Stato pilota nell’esperimento del lavoro da remoto in carcere. Lo hanno poi seguito altri due Stati. L’idea è nata, non a caso, durante il Covid-19, quando sono iniziate le lezioni online universitarie. Esattamente come potevano laurearsi durante il periodo di detenzione, le persone avrebbero anche potuto lavorare. E così è stato.

Lavoro full time e ben retribuito

Un esempio è stato quello di Darlene George, una giovane di Brooklyn, New York. Adesso è una coordinatrice per un programma di borse di studio per un centro di salute del Maine. Monitora e si assicura che siano assegnate regolarmente. Lavora dalle 7 alle 17 e lo fa dalla sua cella, full time. “In realtà le chiamiamo stanze”, ha detto all’intervistatrice di una radio locale, Susan Sharon, come riportato da Npr.org.

La sua è una condanna a 40 anni per omicidio. Per ora ne ha scontati 16 e il suo rilascio anticipato potrebbe avvenire nel 2040. Ma il suo non è un lavoro per carcerati e i suoi colleghi lo sanno. Anche le guardie carcerarie, alle quali comunica, con un segnale fuori dalla porta, che sta facendo una call e che non possono entrare. “Ma loro sanno che sono lì”. E non è pagata il minimo salariale consueto per chi è in prigione. Un cuoco carcerario guadagna 0,6 dollari l’ora, mentre chi è andato a spegnere i roghi in California 7.

George non è un caso isolato: in tutto i carcerati nel programma di lavoro da remoto sono 45. Tra questi c’è Preston Thorpe, che ha rivelato che il suo salario è pari a quello di un ingegnere software di livello senior negli Stati Uniti. Preston ha 33 anni. Ha raccontato di essere sempre stato un amante del computer, un nerd: “Proprio questo mi ha creato problemi nella vita”. E proprio per questo è detenuto: possesso di stupefacenti acquistati online, in particolare oppiacei talmente potenti da essere in grado di uccidere, peggio del Fentanyl.

La sua condanna è di 20 anni e per ora ne ha scontati nove. Ma adesso che ha trovato lavoro, ha un proposito. Ed è qualcosa di grande: l’azienda per la quale lavora è Turso, e si occupa di riscrivere il database open source SQLite, quello prevalente in tutto il mondo. “È su ogni telefono, ogni computer”. A scoprire il talento di Thorpe è stato Glauber Costa, CEO della società, attraverso un programma di recruiting.

I guadagni servono anche per risarcire le vittime

L’esperimento del lavoro in carcere è un successo. Lo ha testimoniato alla radio Randall Liberty, Membro del Department of Corrections, un organo governativo che vigila sulle carceri. In questo modo, ha spiegato, i detenuti possono fare donazioni, ma soprattutto sostentare le proprie famiglie. Ai detrattori, ha obiettato come i fatti dimostrino che, lavorando, i carcerati riescano a pagare assicurazioni sanitarie, spese scolastiche, vacanze ai parenti fuori dal carcere. Le retribuzioni, ha poi precisato, sono quelle di comuni cittadini: “Ci sono casi in cui si arrivano a percepire anche a 90mila euro annui”.  

Gli stipendi, però, non sono versati direttamente su conti correnti personali. Sono invece trattenuti da una sorta di banca centrale interna del Department of Corrections e per essere incassati serve una specifica richiesta. Nell’ambito carcerario, infatti, i lavoratori non sono liberi di acquistare molte cose, a parte comprare qualche extra come cibo o oggetti di elettronica.

Ma al di fuori del carcere, i soldi servono, per esempio, anche come forma di risarcimento dei propri reati. “Questa è la priorità”, ha assicurato Liberty. Il 25% delle entrate dei detenuti è infatti destinato alle vittime, mentre un altro 25% è riservato alle spese legali. Un 10% è, invece, accumulato sotto forma di risparmi. Un altro 10% è trattenuto per i costi di mantenimento della prigione. Succede anche altrove che parte delle retribuzioni dei detenuti siano affidate all’istituto carcerario. In Alabama, per esempio, dove si può lavorare anche al di fuori del carcere, ma il salario, fissato a 7 euro orari, è trattenuto dall’istituto per una quota pari al 40%.

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AI: non basta la supervisione umana, serve il predominio cognitivo

La narrativa dominante sull’Intelligenza Artificiale (AI) ci ha convinto che basti inserire un ‘umano nel ciclo’ per garantire decisioni etiche e accurate. È una pericolosa semplificazione che sta portando le organizzazioni verso errori costosi. Il caso del chatbot MyCity di New York è emblematico.

Lanciato nel 2024 per assistere gli imprenditori, il sistema ha fornito consigli illegali per mesi, suggerendo di trattenere mance dei dipendenti e servire cibo contaminato. Nonostante operatori umani supervisionassero il servizio, nessuno ha rilevato queste violazioni normative gravi. Il problema non era l’assenza di controllo umano, ma la mancanza di giudizio critico sviluppato.

Superare l’illusione della sicurezza

Quando parliamo di human-in-the-loop, stiamo davvero parlando di tre livelli distinti di intervento: la supervisione passiva (clic su “approva”); la validazione attiva (analisi dei risultati); il predominio cognitivo (controllo metodologico del processo). La maggior parte delle implementazioni si ferma al primo livello, creando l’illusione di sicurezza senza sostanza.

È per questo che nelle nostre attività di consulenza in ambito di Business Intelligence (BI) abbiamo scelto di adottare una metodologia ispirata ai principi del predominio cognitivo, mutuata dai modelli di comando e controllo militari. Questo approccio ci consente di garantire non solo la supervisione dei processi analitici, ma un controllo consapevole e strutturato sull’intero ciclo decisionale, assicurando ai clienti risultati affidabili e interpretazioni realmente orientate al valore informativo.

Per garantire vera consapevolezza decisionale nell’interazione tra umano e AI, dobbiamo affrontare tre categorie di distorsioni cognitive, tenendo presente una verità scomoda: la maggioranza delle decisioni umane non sono prese razionalmente, ma attraverso ‘scorciatoie’ mentali chiamate euristiche cognitive. Stiamo parlando di bias dei dati, bias algoritmici e bias cognitivi umani.

I tre bias che compromettono le decisioni

Sulla questione dei bias dei dati è bene sapere che i dataset riflettono pregiudizi storici e limitazioni strutturali. Un sistema addestrato su dati di assunzione del passato perpetuerà discriminazioni sistemiche, indipendentemente dalla sofisticazione algoritmica.

Rispetto ai bias algoritmici non si dimentichi che gli algoritmi non sono neutri. Le scelte di ottimizzazione, le funzioni di loss, i parametri di training incorporano decisioni umane spesso inconsapevoli. Per esempio, un algoritmo di scoring creditizio può penalizzare sistematicamente certi gruppi demografici senza che questo emerga chiaramente nei test.

Infine, ci sono i bias cognitivi umani, i più insidiosi e veloci. Le euristiche cognitive sono schemi prefissi semplificati che permettono decisioni rapide – essenziali per la sopravvivenza – ma diventano trappole mortali negli scenari ad alta complessità. Quando l’AI ci presenta una conclusione articolata, la nostra naturale pigrizia cognitiva ci spinge ad accettarla senza verifiche approfondite.

Il problema è sistemico: nelle organizzazioni, queste euristiche si cristallizzano in processi e procedure aziendali. Funzionano perfettamente nelle situazioni standard, ma di fronte ad anomalie causano due fallimenti critici: decisioni sbagliate per applicazione automatica di schemi inadeguati; paralisi operativa quando l’organizzazione riconosce l’anomalia, ma non sa come gestirla.

La soluzione richiede quello che in ambito cognitivo viene chiamato “sense-making“: pensiero critico strutturato che, pur richiedendo maggiore dispendio di energie e tempo, è l’unico antidoto efficace contro euristiche, bias e fallacie logiche quando la posta in gioco è alta.

La lezione dell’intelligence militare

La soluzione non arriva dai soliti consulenti tecnologici, ma da un ambito che conosce il prezzo dell’errore: l’intelligence militare con le metodologie di comando e controllo. Una metodologia non incentrata sulla tecnologia, ma sull’obiettivo da raggiungere (dove il risultato conta più del processo).

I modelli dottrinali militari hanno un vantaggio cruciale: mentre la Business Intelligence tradizionale si perde in complessità tecnologiche e di processo, quella militare è orientata ai risultati. È stata progettata per trasferire rapidamente conoscenza operativa dalle operazioni sul campo alle sale decisive aziendali, esattamente come già avviene con successo per i principi di comando e controllo.

Il chirurgo Mark McLaughlin ha coniato il concetto di “predominio cognitivo” per evitare errori fatali in sala operatoria, mentre l’Us Army lo ha formalizzato nella dottrina nel 2021. Questo framework si basa sull’ottenimento di tre concetti fondamentali interdipendenti: la consapevolezza situazionale avanzata (la capacità di andare oltre la percezione immediata per raggiungere la proiezione di scenari futuri); il predominio cognitivo (che facilita decisioni rapide e accurate in situazioni di stress); la superiorità informativa come vantaggio competitivo finale.

Il predominio cognitivo si fonda su tre pilastri derivati dall’aviazione militare: percezione (identificare anomalie nei dati); comprensione (contestualizzare le informazioni nell’ambiente operativo) e proiezione (anticipare conseguenze delle decisioni). È lo stesso framework che permette ai piloti di reagire correttamente a situazioni impreviste in frazioni di secondo.

Applicato al business, questo framework sviluppa quella che gli esperti definiscono “consapevolezza situazionale avanzata”: è la capacità di essere profondamente consapevoli dei propri processi cognitivi e selezionare di volta in volta quelli più adatti alla situazione, superando le scorciatoie mentali (euristiche cognitive) che, pur accelerando le decisioni, possono indurre errori grossolani in scenari complessi.

Come implementare il predominio cognitivo

Una vera metodologia di predominio cognitivo nell’AI richiede: self awareness cognitiva (è la consapevolezza dei propri meccanismi decisionali e dei bias personali: prima di valutare un output AI, il decisore deve riconoscere le proprie predisposizioni); filtraggio del rumore informativo (capacità di distinguere informazioni pertinenti da quelle fuorvianti, sviluppando quella che gli analisti definiscono ‘superiorità informativa’, non più dati, ma dati migliori e più rilevanti); contestualizzazione ambientale (comprensione dell’ecosistema in cui si opera, inclusi stakeholder, vincoli normativi, dinamiche competitive e implicazioni etiche); pensiero critico strutturato (applicazione sistematica di metodologie analitiche che contrastino euristiche e bias, richiedendo maggiore dispendio cognitivo ma garantendo decisioni più accurate).

Nelle attività di Business Intelligence, questo approccio rappresenta un cambio di paradigma: non più sistemi che ‘aiutano’ a decidere, ma ecosistemi cognitivi in cui la componente umana esercita un controllo attivo e consapevole sul senso dei dati e sulle implicazioni delle analisi. L’obiettivo non è rallentare i processi decisionali, ma renderli più accurati attraverso quella che potremmo chiamare ‘disciplina dell’incertezza’: riconoscere quando una decisione richiede approfondimento umano e quando può essere delegata all’automazione.

Il futuro appartiene alle organizzazioni che sapranno sviluppare questa forma di intelligenza ibrida: non umani che supervisionano macchine, ma team integrati dove il contributo umano si concentra su ciò che le macchine non possono fare: esercitare giudizio etico, comprendere contesti sfumati, anticipare conseguenze impreviste. La domanda non è più come controlliamo l’AI, ma come sviluppiamo il predominio cognitivo necessario per collaborare efficacemente con essa. Quale sarà la vostra prospettiva?

Per approfondire: The Markup: “NYC’s AI Chatbot Tells Businesses to Break the Law”; CIO: “11 famous AI disasters”; DigitalDefynd: “Top 30 AI Disasters [Detailed Analysis][2025]”; MIT Technology Review; Associazione Italiana Analisti di Intelligence e Geopolitica: “La Corporate Intelligence come Vantaggio Competitivo” (Research paper 3/2021); US Army Training Circular TC 3-22.69: “Cognitive Dominance in Individuai Training” (2021); Endsley, M.R.: “Toward a Theory of Situation Awareness in Dynamic Systems”- Framework della Consapevolezza Situazionale a tre livelli.

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Università cattiva maestra?

L’università dovrebbe essere il luogo dove si coltiva pensiero critico, si trasmettono conoscenze profonde e si formano le competenze per rispondere alle sfide future del lavoro. Eppure, sembra che l’università abbia dimenticato il suo ruolo tra consulenza, spinoff e attività esterne che spesso ‘distraggono’ i docenti dalla didattica e dalla relazione educativa. Che cosa resta dell’università come istituzione che insegna, forma e guida? Se l’attività accademica si frammenta in mille micro-imprese individuali, chi custodisce la missione pubblica dell’istruzione superiore?

Ne parliamo nella puntata di venerdì 21 novembre 2025 di PdM Talk, il talk show settimanale di Parole di Management che va in onda in diretta streaming ogni venerdì dalle 12 alle 13 (la diretta è visibile sul sito del quotidiano, sul canale YouTube di Parole di Management e sul profilo ESTE di LinkedIn), partendo dal libro Università senza futuro – Tra compromessi e riforme possibili (Guerini e Associati, 2025).

In ogni puntata i rappresentanti della grande community di imprenditori e manager della casa editrice ESTE e di Parole di Management si confrontano sulle questioni di attualità – dagli avvenimenti della politica alle mutazioni della società – che hanno un interesse per chi gestisce e vive le organizzazioni.

Gli ospiti della puntata del 21 novembre 2025:

Luca Solari, Professore Ordinario di Organizzazione Aziendale, Università degli Studi di Milano e autore del libro Università senza futuro – Tra compromessi e riforme possibili (Guerini e Associati, 2025).

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PMI Day 2025: lunga vita a chi fa impresa

Il 14 novembre 2025 si celebra in tutta Italia la 16esima edizione del PMI Day, la Giornata nazionale delle Piccole e medie imprese (PMI), un’iniziativa promossa da Confindustria e in particolare dal Comitato della piccola industria, con l’obiettivo di avvicinare scuole, studenti e cittadini al mondo dell’impresa reale. L’intento è semplice, ma cruciale: sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza delle PMI, la spina dorsale dell’economia italiana (l’iniziativa ha ricevuto il patrocinio di: Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale; Ministero dell’Istruzione e del Merito; Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome).

Il PMI Day 2025, il cui tema è “scegliere”, si propone come un momento di confronto tra imprese, scuole, istituzioni e studenti, dove si fa ‘cultura operativa’ e si diffonde informazione sull’economia reale. In un mondo che celebra le grandi multinazionali, il PMI Day ci riporta alla realtà: sono le piccole e medie imprese, spesso invisibili, a tenere in piedi il Paese.

“Le piccole e medie imprese sono la colonna portante del nostro territorio: su 4,5 milioni di imprese, il 98% è di piccola e media dimensione. Il PMI Day abbraccia, quindi, tutta l’economia reale”, spiega Fabio Papa, docente di Economia alla 24Ore Business School e Coordinatore Scientifico del programma MBA part-time.

Il valore nascosto delle PMI

Dietro i numeri si nasconde una realtà spesso poco raccontata. Nonostante le PMI italiane diano lavoro al 70% della forza lavoro privata, restano nell’ombra dei grandi marchi internazionali. Molte di queste aziende, circa 83 su 100, sono a conduzione familiare, e proprio la famiglia rappresenta un elemento distintivo del modello imprenditoriale italiano: la famiglia non è un limite, ma un asset; è un ecosistema fondato sulla fiducia e sulla collaborazione, capace di generare valore economico e sociale.

“Siamo abituati a parlare di multinazionali come Google o Amazon, ma chi porta davvero avanti il Paese sono i cosiddetti campioni nascosti, gli underdog dell’economia italiana: migliaia di imprese familiari che creano occupazione e valore, anche se non finiscono mai in prima pagina”, osserva Papa.

Uno degli obiettivi del PMI Day è anche riabilitare la figura dell’imprenditore agli occhi dell’opinione pubblica. In Italia, infatti, chi fa impresa è spesso demonizzato: come spiega il docente, è visto come chi sfrutta le persone o non paga le tasse, ma la verità è che si tratta di una persona che ha avuto il coraggio di creare qualcosa, dando lavoro e ricchezza al territorio. L’imprenditore non è un nemico, ma un alleato della società.

PodcastBello e possibile

Bello e… possibile

Bello e…possibile. Storie di Made in Italy di qualità è il podcast che racconta l’Italia che produce valore. Un viaggio nelle imprese italiane che credono nella qualità, nel tempo e nella bellezza d…

Risolvere il passaggio generazionale

A proposito di imprese familiari e di imprenditori, il PMI Day è l’occasione per riflettere su uno dei nodi più delicati del sistema produttivo italiano: il passaggio generazionale nelle imprese familiari. Secondo Papa, il termine stesso è improprio: “Non si tratta di un passaggio, ma di una convivenza generazionale. Genitori, figli e spesso nonni condividono la gestione dell’azienda, e il segreto del successo è la comunicazione aperta. Nelle imprese familiari, purtroppo, si parla troppo poco”.

Secondo quanto risulta al docente, data la sua professione di comunicatore con i giovani, è il disagio che spesso vivono i figli degli imprenditori stretti in una morsa di pressioni psicologiche enormi. Si parla spesso di ‘figli di papà’, ma pochi si chiedono quale peso portino sulle spalle fin da bambini: “Il problema non è la loro pigrizia, ma il fatto che la società è ancora guidata da persone che non parlano il linguaggio dei giovani”, dice Papa.

C’è poi l’attualissima questione delle competenze, anche in questo caso legato alla figura dell’imprenditore e alla successione. Siamo sicuri che i capi azienda siano pure degli ottimi insegnanti? Non sempre è così e, a complicare il quadro c’è che anche la scuola non sta formando in modo adeguato tecnici e classe dirigente. Quindi, chi prepara davvero i giovani al lavoro? Secondo Papa, l’expertise oggi è concentrata nella generazione tra i 55 e i 75 anni, mentre tra i giovani si è persa la cultura del sacrificio. E, in questo caso, il docente punta il dito contro la società: “Ha creato un falso benessere, facendo mancare la voglia di conquistare le cose”.

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Meno diritti, ma più produttività: accettereste?

Si può barattare la produttività con i diritti? In Portogallo sembra che i lavoratori un’idea precisa se la siano fatta: il Paese sta assistendo a un’ondata di proteste contro una riforma del lavoro che punta ad aumentare la produttività proprio sacrificando alcuni diritti. A suscitare il malcontento è stato il Disegno di legge depositato dal Primo Ministro Luis Montenegro, a capo di un Governo (centrodestra) che ha sempre promosso l’aumento della competitività per le imprese.

Il punto nodale della riforma è questo: per gli imprenditori diventerebbe più facile licenziare senza causa perché a venire meno sarebbe – in caso di approvazione della norma – la necessità di fornire documentazione e testimonianze. In più alle aziende sarebbe consentito di creare una sorta di ‘banca del tempo individuale’ che renderebbe legale un turno giornaliero più lungo di due ore, fino a un monte annuale di 150 ore. Un’iniziativa che ricorda da vicino il caso della Grecia, dove il Parlamento ellenico ha di recente approvato una legge che prevede che i dipendenti del settore privato possano lavorare 13 ore consecutive per lo stesso datore di lavoro, con una retribuzione maggiorata del 40%.

Le proteste nelle piazze del Portogallo

A Lisbona decine di migliaia di persone – secondo alcune stime addirittura 100mila – sono scese in piazza per protestare. “È chiaramente un passo indietro per la condizione dei lavoratori e potrebbe portare a una perdita in fatto di sicurezza sui luoghi di lavoro”, ha dichiarato alla Reuters Miriam Alvares, una manifestante 31enne impiegata in una azienda sanitaria. “Parlo a nome dei tanti giovani con lavori precari e bassi stipendi, lavoratori il cui futuro sarà segnato da diritti sempre più compromessi”. Le ha fatto eco Madalena Pena, 34enne: “Il Governo sta invertendo la rotta in fatto di diritti dei lavoratori senza averlo preannunciato in campagna elettorale”.

A guidare la manifestazione l’organizzazione sindacale Cgtp, che ha chiamato a raccolta i cittadini accusando l’Esecutivo di favorire le grandi aziende, mentre i lavoratori a basso reddito faticano a sostenere il caro vita. Il Portogallo, infatti, è uno dei Paesi più poveri d’Europa. Le statistiche ufficiali parlano di oltre il 50% della forza lavoro con redditi inferiori a 1.000 euro al mese. Il salario minimo è pari a 870 euro, uno dei più bassi dell’Unione europea.

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Lavoro: c’è chi entra (pochi) e chi esce (tanti)

Una nuova ondata di licenziamenti sta colpendo gli Usa. Da inizio 2025 si sono persi 1,1 milioni di posti di lavoro, raggiungendo i livelli della recessione degli anni 2008-09. L’aumento a ottobre 2025 è stato del 183% sul mese precedente e del 175% sul 2024, segnando il peggior ottobre per numero di licenziamenti dal 2003. Tuttavia, il tasso di disoccupazione è fermo al 4,3%, un livello relativamente basso.

I numeri sulle fuoriuscite comprendono anche le strette sugli organici di colossi come UPS (-48mila) e Amazon (-30mila). Si tratta di licenziamenti concentrati nei settori della tecnologia e del retail, quasi sempre dovuti alla volontà di tagliare i costi e all’introduzione dell’Intelligenza Artificiale, come ha riportato uno studio dell’azienda Challenger, Gray & Christmas. Solo in ambito tecnologico ammonterebbero a 141mila dall’inizio del 2025, in crescita del 17% rispetto allo stesso periodo del 2024. A cui si aggiungono perdite nei campi dell’informazione (-17mila) e dei servizi (-15mila)

“Non abbiamo mai visto dimensioni simili”, è stato il commento di John Challenger, CEO dell’azienda autrice dello studio, come ha riportato il Washington Post, di cui è proprietario lo stesso fondatore di Amazon, Jeff Bezos. L’economia nel frattempo risulta stabile, anche se non sono mancati gli scossoni: l’inflazione, i dazi, e ancora le nuove tecnologie…

Crescono i profitti delle imprese

Ma l’altro aspetto che incuriosisce, e non poco, è che a schizzare insieme con i licenziamenti sono stati i profitti delle imprese: ad aprile 2025, secondo la Federal Reserve, si registrava +3,25 miliardi di dollari. Le due facce della medaglia stridono, inevitabilmente. Perché tanti licenziamenti se gli affari vanno bene?

Un’idea sul perché la ha proposto Chen Zao, Chief Global Strategist di Alpine Macro. Intervistato dalla CBS, ha detto: “Si sta verificando qualcosa di completamente diverso dal passato, un boom di persone senza lavoro”. Al centro di tutto c’è senza dubbio l’AI: “Spinge la produttività di tantissime aziende e dell’economia in larga scala, e allo stesso tempo sopprime la richiesta di lavoratori”. Allora perché la disoccupazione non sale? “Da una parte ci sono i pensionamenti della generazione dei boomer, dall’altra un calo nell’immigrazione. È come se si ricreasse un nuovo equilibrio senza domanda di lavoro né richiesta”.

Non tutti però pensano che alla base di tutto ci sia lo zampino dell’AI. Secondo Art Papas, CEO of Bullhorn, compagnia di software, il taglio dei posti di lavoro dipende soprattutto dal fatto che si stanno ricalibrando le esigenze aziendali del dopo pandemia. “È più facile trovare nuovi lavoratori, per questo le aziende sono spinte a licenziare di più”. Ecco perché nei mestieri ‘entry level’, che sono quelli dove si assume di più, si concentrano di più i licenziamenti, ha osservato Papas.

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L’ultimo flop di Transizione 5.0

Il piano Transizione 5.0 è partito male ed è finito… peggio. Dopo lo scossone che sottolineava l’imminente chiusura del piano per esaurimento fondi (o per flop organizzativo e di gestione della procedura?) e le conseguenti polemiche delle associazioni di categoria e dei rappresentanti delle aziende dopo una così ferale notizia, di recente è intervenuto il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) che ci ha messo ‘una pezza’. Ma procediamo con ordine.

Dall’annuncio di inizio 2024 e quelli successivi, viene proprio da pensare che questo progetto – nobilissimo negli intenti, alimentato dai fondi dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e finanziato tramite il programma europeo NextGenerationEU per rispondere alle esigenze delle imprese per iniziare un approccio al digitale e alla transizione green – in realtà sia partito con il piede sbagliato.

Nel 2024 abbiamo assistito al balletto continuo tra segnalazioni di normativa complicata, circolare di oltre 100 pagine arrivata in pieno agosto e, dopo un continuo sollecito agli organi governativi preposti che mai scucivano novità, è arrivata la parvenza di una proroga mai confermata, ma sempre nell’aria; infine, ci sono state le periodiche semplificazioni (mai sufficienti) messe in campo dal Mimit durante l’autunno e l’inverno 2024.

Intanto i mesi passavano, lasciando sempre più disorientate e in difficoltà le imprese interessate: per le aziende non ci fu che sospendere ogni possibile approccio alla richiesta di questi fondi, con le realtà produttive tenute al cappio da un sistema burocratico estremamente complicato. Da quel momento: meno accesso ai fondi e, per conseguenza, casse piene di denaro mai erogato alle imprese stesse.

Un disastro annunciato

Un flop, verrebbe da dire, che si è concretizzato sempre di recente con la doccia fredda della chiusura anticipata del Piano 5.0, lasciando l’amaro in bocca a tutti coloro che speravano in un approccio semplificato, come fu per Industria 4.0 (nel frattempo diventata Transizione 4.0). E, ironia della sorte, quest’ultimo ha invece continuato a dare i suoi frutti.

Ma anche sul fronte 4.0 c’è stato un altro colpo di scena che ha regalato sorrisi amari ai numerosi imprenditori che avevano riposto speranze proprio su questa iniziativa. È dell’11 novembre 2025, l’ennesima comunicazione ministeriale che annuncia la fine dei fondi per Transizione 4.0. Ma dove sta la beffa? Tutta ‘colpa’ del piano Transizione 5.0 che, a detta di fonti ministeriali, ha subito di recente una profonda accelerazione portando con sé anche la super richiesta degli incentivi 4.0 che, malauguratamente, sono terminati in breve tempo.

Tuttavia, vi è di più. Il Mimit ha voluto cucire l’ennesima pezza sopra questa vicenda e ha lasciato in sospeso l’eventualità che i fondi rispuntino. Infatti, è stato scritto in una nota: “Le imprese possono continuare a inviare comunicazioni di prenotazione. Nel caso di nuova disponibilità di risorse, il Gestore dei servizi energetici – Gse spa ne darà comunicazione alle imprese secondo l’ordine cronologico di trasmissione delle domande”. Come a dire: care aziende, provateci ma – è questo il lecito dubbio – non è detto che ci saranno i fondi.

A caccia di fondi

La svolta, però, è arrivata nella settimana del 10 novembre 2025: il Mimit ha diramato una nota che ha tutta l’aria di voler calmare gli animi. Il ministero ha spiegato: “Nel fine settimana e nella giornata di ieri, risultano caricati sulla piattaforma Gse ulteriori 742 progetti, per un valore complessivo di 231.084.152,50 euro. Tali progetti si aggiungono ai 12.461 già conteggiati al 7 novembre, prima dell’annuncio dell’esaurimento delle risorse, per un ammontare complessivo di circa 2,9 miliardi di euro. Per questi nuovi progetti, come già precisato dal Mimit nel comunicato stampa del 7 novembre, il Governo sta operando per reperire le risorse aggiuntive necessarie al soddisfacimento delle domande. La presentazione dei progetti proseguirà fino al 31 dicembre e le richieste saranno valutate secondo l’ordine cronologico di presentazione”.

Verrebbe da tirare un sospiro di sollievo, ma alla luce degli eventi è lecita un po’ di diffidenza e la tendenza a non credere fino in fondo al futuro (incerto) del programma e a immaginare come potrebbe finire: “Dal 1 gennaio 2026 sarà invece operativo il nuovo Piano Transizione 5.0, in piena continuità operativa con l’attuale misura”. Ecco appunto, speriamo che la “continuità” non sia solo burocratica…

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E adesso il gender gap ce lo spiega Ronaldo?

Poteva essere un fenomeno isolato, quello della dichiarazione di Cristiano Ronaldo che parlando di come la moglie, Georgina Rodríguez, si prende cura di lui, della famiglia e della casa, ha detto: “Gli uomini non possono occuparsene, onestamente”. Eppure l’uscita del campione portoghese – che ha scatenato ampie polemiche con accuse di maschilismo – nasconde un ritorno al passato che emerge da alcune rilevazioni sul lavoro femminile negli Usa.  

A scriverne è stato l’Economist che nell’articolo dal titolo “Why are American women leaving the labour force?”, per analizzare il calo delle donne nel mondo del lavoro, ha parlato di cambiamento a livello sociale e culturale. Il settimanale britannico ha spiegato che per capire ciò che sta accadendo basta fare un giro su Tik Tok: sul social corre il fenomeno delle Tradwives”, cioè mogli e madri perfette, che rimandano ai vecchi ruoli novecenteschi della donna.

Frena la crescita del tasso di occupazione femminile

Quanto sta accadendo in Usa è un’utile cartina di tornasole del fenomeno, visto che proprio Oltreoceano si erano toccate quote di occupazione femminile molto alte. E così, se ad agosto 2024 negli Usa era stato registrato un tasso di donne occupate pari al 57,7%, l’ultima rilevazione ha indicato che si è arrivati al 56,9%: l’equivalente di circa 600mila donne in meno nel mercato del lavoro.

Per capire meglio lo scenario è interessante osservare gli andamenti occupazionali delle donne nelle epoche passate. Nel corso degli ultimi 80 anni, almeno da quando l’Ufficio americano di statistiche del lavoro (l’America’s bureau of labour statistics) ha cominciato a raccogliere dati suddivisi per genere, si è radicata una certezza: le donne hanno ridotto il gap rispetto agli uomini. Se nel 1948 solo il 32% delle statunitensi risultava occupata o in cerca di lavoro; nella stessa condizione si trovava più del doppio – l’87% – dei colleghi maschi.

Alla fine degli Anni 90 le percentuali erano così diventate: 60% delle donne nella forza lavoro, contro il 75% degli uomini. Il gap ha proseguito la sua discesa nel corso degli anni 2000 e nel decennio successivo, finché non è arrivato il Covid 19, con la conseguente contrazione del numero di occupati. Tuttavia, al principio del 2025, il gap di genere si era ridotto di nuovo fino ad appena 10 punti, il più basso mai registrato. Come mai allora la tendenza si è invertita? Quale potrebbe essere il motivo di una tale inversione di tendenza?

Le donne con figli escono dal lavoro

La risposta più ovvia è quella di un cambiamento nella natura dell’economia nordamericana. Ma non nel senso che le industrie in cui sono più presenti le donne siano in difficoltà. I dati infatti suggeriscono altro. I settori più colpiti dalla crisi economica risultano il Retail, la Manifattura e i Trasporti, dove la presenza tra uomini e donne è bilanciata e anzi, tende a concentrare più i primi. Al contrario i settori tipicamente femminili come l’educazione e la sanità stanno assumendo di più.

È per questo che l’Economist ha proposto il fenomeno delle “Tradwives”, non escludendo neppure che, di mezzo, possa esserci la necessità delle neomamme di lasciare il lavoro per i costi non proprio abbordabili della cura dei bambini. Quest’ultima ipotesi è suffragata dai numeri: secondo l’Istituto di statistica Usa (Census Bureau), la partecipazione al lavoro delle 25-54enni con figli sotto i cinque anni è calata rispetto al picco post pandemico. E qui c’è da sottolineare un altro trend: il calo non riguarda tutte.

C’erano 7,8 milioni di lavoratrici madri di bambini Under 2 fino a due anni fa, cifra che ora è salita a 7,9; la contrazione sembra riguardare di più le giovani, specie chi ha rimandato il matrimonio nel corso della pandemia. Non a caso per le nozze c’è stato un vero e proprio boom nel 2022. Tutto sembrerebbe insomma appuntare in una direzione: negli Usa c’è una sorta di piccolo baby boom post pandemico. Il che spiegherebbe la fuoriuscita dal lavoro di molte donne.

C’è un altro punto. Ed è lo Smart working. Adesso che il lavoro in presenza è tornato a essere richiesto, le giovani che hanno imparato a lavorare da remoto, conciliando l’attività professionale con la cura dei piccoli e della casa, saranno disposte a rientrare in ufficio, e quindi nella forza lavoro? Speriamo che non ci si debba affidare a Ronaldo per avere la risposta…

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Cambio ai vertici per Biofarma Group, Alberto Urli nuovo CEO

Cambio alla guida di Biofarma Group, uno dei principali gruppi globali attivi nei settori nutraceutico e cosmetico, con 450 milioni di euro di fatturato, oltre 1.500 dipendenti e nove stabilimenti tra Europa, Stati Uniti e Cina. Il Consiglio di Amministrazione ha nominato Alberto Urli nuovo Amministratore Delegato del gruppo.

Entrato in Biofarma nel 2022, Urli ha finora ricoperto il ruolo di Chief Operating Officer, guidando il processo di integrazione internazionale e coordinando due importanti investimenti strategici in Francia e negli Stati Uniti. La sua nomina, sottolinea l’azienda, rappresenta una scelta di continuità operativa ma anche di accelerazione del piano industriale del gruppo, oggi presente in oltre 75 Paesi.

Il fondatore Germano Scarpa, che ha ricoperto ad interim la carica di CEO negli ultimi quindici mesi, assume ora la presidenza del gruppo, con il compito di garantire la stabilità della governance e mantenere vivo il legame con i valori originari della società, fondata quasi quarant’anni fa insieme a Gabriella Tavasani.

Contestualmente, Biofarma rafforza la propria struttura manageriale con l’ingresso di Jonathan Arnold nel ruolo di presidente della holding. Manager di lunga esperienza, Arnold ha maturato incarichi di vertice in gruppi internazionali come Catalent e Patheon. “Quando un’azienda sceglie il proprio nuovo CEO dall’interno, manda un messaggio forte: l’ambizione può diventare realtà e la crescita personale è un valore autentico. La nomina di Urli non è solo una scelta di continuità, ma porta nuova energia e rappresenta un catalizzatore che darà slancio all’intera organizzazione, avvicinandoci ancora di più ai nostri clienti”, ha commentato Scarpa.

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Marsocci Amministratore delegato del Gruppo Armani

Cambio ai vertici del Gruppo Armani: il Consiglio di Amministrazione ha nominato Giuseppe Marsocci nuovo Amministratore Delegato con effetto immediato e il suo contestuale ingresso nel CdA. La decisione, approvata su proposta unanime della Fondazione Armani, si inserisce nel solco della continuità che ha sempre contraddistinto la visione del fondatore.

Figura di riferimento interna, Marsocci può vantare oltre 35 anni di esperienza nel settore della moda e del lusso, di cui 23 trascorsi all’interno del Gruppo Armani in ruoli di crescente responsabilità tra Milano e le sedi estere. In particolare, ha guidato per diversi anni la filiale americana del gruppo come CEO delle Americhe, dopo aver ricoperto posizioni chiave nelle aree commerciali e di brand management. Negli ultimi sei anni, Marsocci ha affiancato direttamente Giorgio Armani nel ruolo di vicedirettore generale e Global Chief Commercial Officer, oltre a presiedere diverse società del gruppo, tra cui Giorgio Armani Retail , e a sedere nei consigli di amministrazione di numerose controllate internazionali.

Con la nuova nomina, Marsocci riporterà al CdA presieduto da Leo Dell’Orco, mentre Silvana Armani assumerà la carica di vicepresidente. “Prenderà la sua forma definitiva al compimento delle procedure testamentarie, ma si è voluto procedere subito con la nomina dell’Amministratore Delegato per garantire continuità nella gestione del gruppo”, è la nota ufficiale del Consiglio.

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Cantiere Navale Vittoria, Cavazzana nuovo Amministratore Delegato  

Nuova fase per lo storico Cantiere Navale Vittoria (CNV), simbolo dell’industria polesana. Nel corso dell’assemblea odierna, i soci hanno nominato Roberto Cavazzana nuovo amministratore delegato Operations, avviando così la seconda fase del piano di rilancio industriale. Cavazzana, che già ricopriva il ruolo di amministratore finanziario, subentra all’avvocato Francescomaria Tuccillo, che ha guidato l’azienda nella fase di riorganizzazione seguita all’acquisizione.

Con questa nomina, la proprietà intende rafforzare la governance e il controllo dei processi interni, puntando al consolidamento produttivo e gestionale e al rilancio competitivo del cantiere sui mercati nazionali e internazionali. L’operazione segna l’inizio di una nuova fase di sviluppo e innovazione, con l’obiettivo di valorizzare le competenze storiche del Cantiere Navale Vittoria e di proiettarle verso le sfide della cantieristica moderna, dall’innovazione tecnologica alla sostenibilità produttiva.

Fondata nel 1927, la realtà adriese rappresenta una delle eccellenze industriali del Polesine, con una lunga tradizione nella costruzione di imbarcazioni civili, militari e di soccorso. Oggi la nuova governance punta a consolidare questo patrimonio di esperienza, trasformando il cantiere in un polo navale di riferimento per innovazione e affidabilità, mantenendo saldo al tempo stesso il legame con il territorio di Adria.

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