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Autore: Lorenzo Sernicola

Il CEO nell’era dei dilemmi

Il tempo del leader solitario, infallibile e accentratore è finito. La complessità del mondo contemporaneo — resa ancora più evidente dalla crisi pandemica — ha imposto un cambio di passo radicale nel modo di intendere la leadership. Oggi non bastano più intuito e controllo: servono visione, empatia, competenze tecnologiche e, soprattutto, la capacità di condividere. È da questa consapevolezza che nasce Primo: non comandare (Il Sole 24Ore, 2021), un saggio di Pierangelo Soldavini, giornalista de Il Sole 24Ore, Francesco Pagano, Head os sales of qibee (startup della blockchain) e Natalia Borri, Fondatrice di The Ad Store (agenzia creativa) che racconta la metamorfosi del ruolo del CEO.

Gli autori esplorano i dilemmi che oggi definiscono la frontiera del management. La tecnologia esponenziale, la sostenibilità ambientale, il nuovo storytelling dei brand e il ripensamento del lavoro impongono ai vertici aziendali scelte che non hanno più risposte univoche. Qualunque direzione si prenda, avrà effetti potenzialmente devastanti o rigenerativi sull’impresa, sulla comunità e persino sul pianeta. La leadership contemporanea è diventata una zona grigia fatta di scelte morali, di coraggio e di rischio. Il volume, arricchito da un QR code, raccoglie testimonianze di oltre 60 CEO e amplia il dibattito in chiave partecipativa, aprendo lo spazio per un dialogo continuo tra leader, manager e professionisti.

La visione del CEO guida l’azienda

Ma chi è oggi il CEO “medio”? Gli autori non risparmiano critiche: ancora troppo solo al comando, schiavo dei numeri e delle metriche di breve periodo, spesso prigioniero di una falsa meritocrazia che maschera l’assenza di visione. Una figura destinata a diventare rapidamente anacronistica se non saprà evolvere verso un modello più umano, inclusivo e interconnesso. A questa trasformazione è dedicato il cuore del libro, dove i cosiddetti “nove comandamenti” non sono regole da seguire, ma traiettorie per costruire un nuovo modo di guidare.

Si parte dalla strategia, che smette di essere un piano e diventa un sogno condiviso — un “andare sulla luna” che coinvolge le persone, non solo i numeri. La tecnologia non è più uno strumento da delegare, ma una competenza da padroneggiare con consapevolezza, così come la sostenibilità diventa la misura dell’impresa necessaria, quella capace di restituire valore al mondo in cui opera. Il marketing, spiegano gli autori, non muore: si trasforma, passando dal messaggio calato dall’alto alla partecipazione delle comunità, perché il potere è ormai del pubblico.

C’è poi la dimensione più intima della leadership: imparare a convivere con la paura e a coltivare il coraggio, accettare la solitudine come spazio di riflessione e la bontà come leva di forza, non di debolezza. La cultura, infine, torna a essere il vero motore del cambiamento, intesa come apprendimento continuo e tensione verso l’eccellenza. E su tutto, due parole chiave che attraversano il libro come un filo rosso: empatia e parità di genere. Perché solo riconoscendo l’altro — nelle sue diversità, nei suoi talenti, nella sua umanità — il leader può davvero guidare verso il futuro.

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Forza, coraggio e… organizzazione

Come si affrontano le turbolenze economiche e geopolitiche? La risposta è la forza dell’organizzazione: le organizzazioni sono il punto di riferimento più solido per le persone ed è tempo che tornino a esprimere la loro forza per affrontare le emergenze e garantire benessere e prosperità diffusi. L’organizzazione forte è capace, tra le altre cose, di orientare le tecnologie per i bisogni umani. Ma come si sblocca davvero questo potenziale? Come si modella il potere dentro queste nuove organizzazioni? Quali sono le competenze manageriali per vivere le organizzazioni forti e farle fiorire?

Ne parliamo nella puntata di venerdì 5 dicembre 2025 di PdM Talk, il talk show settimanale di Parole di Management che va in onda in diretta streaming ogni venerdì dalle 12 alle 13 (la diretta è visibile sul sito del quotidiano, sul canale YouTube di Parole di Management e sul profilo ESTE di LinkedIn): per l’occasione a ospitare la puntata è la sesta edizione del Forum di Sviluppo&Organizzazione.

In ogni puntata i rappresentanti della grande community di imprenditori e manager della casa editrice ESTE e di Parole di Management si confrontano sulle questioni di attualità – dagli avvenimenti della politica alle mutazioni della società – che hanno un interesse per chi gestisce e vive le organizzazioni.

Gli ospiti della puntata del 5 dicembre 2025:

Susanna Carloni, Finance-Administration & H.R. Manager di Benelli

Alessandro Catelli, Sustainability & Risk Director di Gruppo Arcese

Maria Cecchin, trainer e team coach di Performanse

Giada Marafon, Account Relationship Leader di auxiell & euxilia

Adriano Solidoro, Professore di Organizzazione Aziendale, Università degli Studi di Milano-Bicocca

Sara Lupi, HR VP Global Support Functions, Head of Human Resources Southern Europe di Beiersdorf

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Benedetta Cuttica esempio di leadership femminile

È stato assegnato a Benedetta Cuttica il 27esimo Premio Aidda Liguria, il riconoscimento dedicato a imprenditrici e dirigenti che si distinguono nel loro lavoro in ambito territoriale. “Esempio di eccellenza e leadership al femminile in un settore STEM, come quello della produzione e sviluppo di software industriali. Grazie a figure come la sua incoraggiamo tante ragazze che vogliono affacciarsi a queste professioni”, è la motivazione che ha accompagnato il premio alla CEO di sedAptaGroup, parte di Elisa Industriq. A premiare Cuttica, nel pomeriggio del 28 novembre 2025, è stata Daniela Anselmi, Presidente Delegazione Aidda Liguria presso il Salone di Rappresentanza del Comune di Genova a Palazzo Tursi.

Con oltre 20 anni di esperienza nell’industria IT e del software, con un forte focus sulla digitalizzazione industriale, Cuttica è CEO di sedAptaGroup, parte di Elisa Industriq, dall’autunno 2024, quando l’azienda fondata dal padre Giorgio è stata interamente venduta a Elisa, leader finlandese delle telecomunicazioni.

Dopo essersi laureata in Ingegneria del Software presso l’Università di Genova, Cuttica ha iniziato la sua carriera in Siemens, dove ha ricoperto varie posizioni dirigenziali, tra cui Industry Manager e R&D Program Manager. È entrata a far parte del Gruppo sedApta nel 2014: inizialmente ha assunto il ruolo di CTO prima di essere nominata CEO.

Oltre al ruolo in sedApta, è Presidente di AImesys Srl e Membro del Consiglio di amministrazione di Novigo Technology Srl. A caratterizzare il suo stile di leadership è la combinazione di competenze tecniche e la visione imprenditoriale, che mette a disposizione per la trasformazione digitale dell’industria manifatturiera.

In un’intervista rilasciata a una testata ESTE – Sistemi&Impresa, Aprile 2025 – Cuttica rispondeva così alla domanda su chi fossero i suoi maestri: “Mio padre è stato il mio faro e l’ispiratore di tutto; ma sono grata anche a Enzo Giori, Chairman di sedApta ed ex Amministratore Delegato di Siemens: mi è stato a fianco e mi ha insegnato moltissimo. Devo molto anche a tutti i miei colleghi perché siamo un’azienda di persone e ognuno porta quotidianamente il suo contributo all’organizzazione”.

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Oltre la tecnica, la rivoluzione educativa imposta dall’AI

Preparare la società a convivere con l’Intelligenza Artificiale (AI) significa innanzitutto ripensare la formazione delle nuove generazioni. Non si tratta soltanto di acquisire familiarità con strumenti digitali sempre più sofisticati, ma di coltivare spirito critico, creatività e capacità di adattamento, competenze indispensabili per governare trasformazioni tecnologiche destinate a evolvere con rapidità crescente. La scuola e i sistemi educativi, da soli, non possono sostenere un cambiamento di tale portata: serve una responsabilità collettiva e istituzionale capace di prevenire rischi ormai evidenti, dall’ampliamento dei divari socioeconomici all’esclusione digitale, fino ai possibili stravolgimenti occupazionali.

Questa esigenza è acuita dal fatto che l’AI non è più soltanto uno strumento tecnico di elaborazione o previsione, ma un agente che partecipa in modo attivo ai processi decisionali. Si passa così da una visione meramente strumentale a una prospettiva dialogica, in cui la conoscenza viene co-costruita da uomo e macchina.

Un cambio di paradigma che ha guidato le riflessioni della tavola rotonda del Festival del Futuro Education 2025, dedicato quest’anno al tema “Intelligenza responsabile: dall’Uomo vitruviano all’Uomo del silicio”. Coordinata da Chiara Lupi, Direttrice responsabile di MIT Sloan Management Review Italia (rivista di Edizioni ESTE promotrice dell’evento), il confronto, venerdì 28 novembre, ha visto la partecipazione di Marco Bentivogli, Co-fondatore di Base Italia (associazione che promuove iniziative di studio e ricerca in materie economiche, giuridiche e sociali), Massimo Bottacin, Chief People Officer di Bauli (azienda alimentare italiana di prodotti da forno), Camilla Brossa, Ceo di Caia Consulting (agenzia di consulenza per l’innovazione), Marta Cenzi, Responsabile Area istituzionale Fondazione Cariverona (fondazione di origine bancaria senza scopo di lucro), Giovanni Costa, Professore emerito Organizzazione aziendale Università degli Studi di Padova.

Da hard a soft, imparare ad apprendere

Proprio Costa ha ricordato come uno dei nodi cruciali riguardi il tempo di obsolescenza delle competenze, oggi più rapido del tempo necessario per apprenderle. Concentrarsi solo sulle tecnologie o sull’efficienza immediata significa rischiare di diventare superati ancor prima di aver padroneggiato gli strumenti. Da qui l’urgenza di puntare sulle metacompetenze: il metodo deve precedere la tecnica, perché la tecnica invecchia, mentre la capacità di rigenerare e aggiornare il proprio sapere resta essenziale. Imparare, oggi, implica anche saper disimparare, liberandosi di automatismi inadeguati e coltivando uno spirito sperimentale, libero da allarmismi e rigidità. È un atteggiamento “laico” verso l’AI, che permette alla creatività umana di rimanere al centro, anche quando si tratta di mettere in discussione le risposte generate dalle piattaforme conversazionali.

Questa lettura si integra con l’analisi proposta da Bentivogli, che invita a osservare il percorso storico delle tecnologie, distinguendo due grandi età delle macchine: la prima ha superato i limiti fisici dell’uomo, la seconda, quella attuale, ne sfida i limiti cognitivi. È proprio in questo passaggio che l’impatto dell’AI appare più evidente nelle professioni a maggiore contenuto analitico, mentre quelle basate su capacità senso-motorie risultano meno esposte. Il lavoro diventa così il crocevia tra transizione demografica, trasformazione tecnologica e sostenibilità ambientale. Una complessità da comprendere alla luce di un altro fenomeno: molte aziende non assumono persone per ruoli che, almeno in parte, sono già svolti da algoritmi. Un approccio errato di AI first che, se male interpretato, rischia di impoverire le competenze umane e di produrre deskilling. Per evitarlo, occorre restituire protagonismo alle persone e investire su abilità nuove.

L’apprendimento diventa personalizzato e inclusivo

Se questo è il quadro, il tema delle competenze torna con forza nel ragionamento di Bottacin, secondo cui la formazione del futuro non potrà più limitarsi alle tradizionali logiche di upskilling e reskilling. Cambierà l’atteggiamento stesso verso l’apprendimento: la differenza non sarà dettata dalle competenze tecniche, ma dalla qualità umana. La curiosità diventerà un antidoto decisivo contro la pigrizia cognitiva, acceleratore dell’obsolescenza personale. In un mondo in cui l’AI è un compagno di lavoro, non sarà indispensabile saper programmare, ma sarà fondamentale saper interagire con gli strumenti e, soprattutto, valorizzare ciò che rende unico l’essere umano.

È in questa direzione che si colloca anche la personalizzazione dell’apprendimento, una delle aree in cui l’IA può offrire un contributo cruciale. Brossa ricorda come i percorsi adattivi consentano di rispondere alle specificità cognitive degli studenti, favorendo un apprendimento più inclusivo, utile anche per chi vive disturbi specifici. Comprendere il funzionamento degli strumenti tecnologici diventa così rilevante non solo per le professioni digitali, ma anche per mestieri ad alta componente manuale: un parrucchiere, ad esempio, può utilizzare l’IA per generare contenuti, immagini o video utili a valorizzare il proprio lavoro.

Tutte le categorie professionali sono chiamate a confrontarsi con questi cambiamenti. E la rapidità dell’impatto rende ancora più necessario poter contare su istituzioni educative credibili. Cenzi invita a superare l’atteggiamento passivo e a sperimentare il cambiamento con creatività e spirito innovativo. In questo percorso, il dialogo intergenerazionale può diventare una risorsa strategica: i giovani portano una naturale alfabetizzazione digitale, mentre le generazioni più esperte offrono visione e profondità. Unire questi sguardi significa immaginare un futuro più solido e sostenibile. Anche per questo, dal 2026, nascerà in Fondazione Cariverona uno Young Advisory Board, un segnale concreto della volontà di riportare i giovani al centro dei processi decisionali. Perché preparare le nuove generazioni alla sfida dell’AI significa non solo sviluppare competenze, ma costruire una cultura del cambiamento. E il cambiamento, oggi, è esso stesso una forma di apprendimento continuo.

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Povero ceto medio

L’impoverimento del cosiddetto ceto medio è il frutto del trend della situazione generale e di sue alcune specificità. Dal punto di vista generale, tale impoverimento dipende dalla riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni italiane che hanno comportato anche un aumento del numero di famiglie con redditi inferiori alla soglia di povertà. Sicuramente è in corso un abbassamento del baricentro del livello retributivo di tutti gli italiani: tale situazione negativa è particolarmente evidente se confrontata con quella degli altri Paesi dell’Europa occidentale, che hanno invece visto crescere il loro potere d’acquisto di almeno il 30% dal 2008 a oggi. Tale fatto ci risulta molto evidente quando ci troviamo all’estero…

Una causa di questa riduzione è stato il fiscal drag, che ha particolarmente intaccato tali redditi a causa dell’elevata inflazione degli ultimi anni (un cumulativo di circa il 14% fra 2022 e 2023). Ma fra le cause c’è anche qualcosa di strutturale, dovuto cioè alla staticità e all’impoverimento dell’economia del Paese. Il fatto che il Prodotto interno lordo in termini reali non cresca dal 2008, significa che il valore aggiunto dei nostri posti di lavoro non è aumentato da allora (mentre è aumentato di almeno il 30% degli altri Paesi di riferimento).

Perché le retribuzioni sono inevitabilmente determinate da tali valori aggiunti, questo fatto comporta di per sé una impossibilità di aumento delle stesse. Facendo un confronto con la Francia, le retribuzioni lorde rappresentano in entrambi i Paesi il 67% del valore aggiunto dal posto di lavoro. Quindi la bassa entità di quelli italiani non va ricercata nella mancanza di contrattualità negli anni passati (come sostenuto da alcuni), perché le retribuzioni dei due Paesi sono semplicemente allineate ai relativi valori aggiunti.

In effetti, però, anche la Francia sta soffrendo ora di staticità economica e debole (o nullo) sviluppo. Mentre è vero che in Italia dal 2021 la produttività del lavoro è aumentata del 2% (e questo giustificherebbe un aumento dei salari corrispondente), occorre considerare che la Produttività totale (PTF) delle imprese invece non è affatto aumentata, perché sono aumentati per loro altri costi strutturali. Non ci sarebbero quindi spazi per aumenti retributivi. Ma il problema non è comunque dell’ordine di grandezza di tale 2%: manca all’appello almeno un 25%.

Ci mancano le aziende grandi (che pagano di più)

Tra le cause che più hanno impattato sul livello retributivo del ceto medio, la principale è forse quella costituita dalla quasi sparizione dall’Italia delle grandi aziende e delle multinazionali. È in esse che risultava occupata buona parte del nostro ceto medio e in tali aziende la retribuzione media era – ed è ancora nelle poche rimaste – superiore dell’8-9% rispetto a quella delle Piccole e medie imprese (PMI).

Sulla retribuzione dei Quadri (baricentro del ceto medio) impatta anche il mix del valore aggiunto dai loro posti di lavoro, combinato con la loro scolarità e competenza personale (che sicuramente condiziona il livello retributivo). Come ben sappiamo, l’Italia è ora largamente ultima in Europa in laureati e periti tecnici e in particolare nelle discipline Stem (Science, technology, engineering, mathematics), cioè quelle che più oggi servono per creare valore aggiunto nel nuovo mondo digitalizzato.

Abbiamo carenza di entrambe le cose: pochi posti di lavoro Stem e poche relative competenze nei lavoratori. Ovviamente in questo binomio prevale, come causa principale, la mancanza di posti di lavoro Stem, determinata dall’arretratezza dei nostri prodotti e servizi (poco impattano percentualmente sul Pil le spesso magnificate eccellenze italiane).

Occorre però forse fare una ulteriore considerazione. Se è probabilmente colpa del posto di lavoro il fatto che un nostro lavoratore, che lavora 1.760 ore all’anno, produce meno valore aggiunto di un tedesco che ne lavora 1.400, non dobbiamo sottovalutare l’importanza delle competenze e capacità. A questo riguardo non dovremmo dimenticare – anche se facciamo di tutto per farlo – che anche i nostri pochi diplomati e laureati sembrano avere un problema a riguardo.

Infatti, i test dall’Ocse evidenziano che un diplomato dei Paesi nordici è molto più competente e capace di un laureato italiano. E ciò vale per tutti gli aspetti esaminati: cultura generale, capacità matematiche, capacità di ragionamento logico… Possiamo anche considerare la cosa non determinante, ma il fatto di essere ultimi a riguardo su 31 Paesi sviluppati esaminati, dovrebbe fortemente preoccuparci.

L’effetto negativo dell’ecommerce sui negozi

Il ceto medio è anche in buona parte costituito dalla popolazione dei proprietari delle attività del commercio, in particolare del Retail, cioè dei negozi al dettaglio. Probabilmente questa era in passato una delle categorie più presenti e più ricche del ceto medio. Ebbene, nell’ultimo decennio il numero di negozi si è ridotto del 22%. Ma non è diminuito il numero degli addetti: nello stesso periodo è aumentato del 6,2%. Ciò significa che si sono persi molti proprietari dei negozi e sono aumentati gli impiegati delle grandi organizzazioni commerciali.

Ovvio che le retribuzioni tali persone non sono elevate e probabilmente non fanno parte del ceto medio. Un loro aumento numerico ha sicuramente abbassato il salario medio degli italiani, ripercorrendo il fenomeno già registrato nel Turismo, anch’esso con posti di lavoro a salari più bassi della media. Non a caso oggi assistiamo a un aumento dell’occupazione, ma a una riduzione del salario medio.

La causa della drastica riduzione dei commercianti al dettaglio, ma anche dei dealer (i grossisti), è stata ovviamente l’affermarsi dell’ecommerce, che ha avuto un overboost nel periodo della pandemia Covid e che si è in buona parte consolidato successivamente. L’effetto di ciò ha avuto un notevole impatto sulle persone coinvolte nelle catene commerciali e logistiche. Tale fenomeno non è sufficientemente considerato anche in tutte le nostre valutazioni sull’andamento del Pil.

Oltre a impiegare nella sua distribuzione personale con bassi salari (che abbassano il medio nazionale), l’ecommerce ha dato una grossa spinta negativa al nostro Pil. Infatti si è sostituito alle ultime ‘due miglia’ commerciali precedentemente esistenti: quella dei grossisti e quella dei negozi al dettaglio. E così tutto il valore aggiunto da loro generato precedentemente sui prodotti da loro importati (differenza tra il prezzo di acquisto il prezzo di vendita) è sparito. Infatti, buona parte dei prodotti di importazione ora è fatturata al cliente in ecommerce da parte delle filiali estere dei big del settore o addirittura dal fornitore estero. Tutto quel valore aggiunto (Pil) è sparito dall’economia italiana.

Italia attrattiva solo per le basse competenze

L’ultimo aspetto che impatterà sempre di più sui redditi e sulla tipologia stessa del ceto medio è connesso alla riduzione demografica in corso e alla tipologia e mix della sua piramide. Le proiezioni Istat ci dicono che, dato l’attuale tasso di natalità, tra 20 anni la popolazione lavorativa sarà inferiore del 20% rispetto a quella attuale. Tutti ci auguriamo che parte o tutto quell’ammanco sia coperto da immigrati. Ma, oltre alle ricadute sul sistema sociale, tale cambiamento impatterà anche sulla componente ceto medio.

Sicuramente molti immigrati saranno impiegati in attività del Retail e già alcune attività – per esempio il commercio di fiori, la vendita di frutta e verdura… – sono in larga parte nelle loro mani. Sicuramente saranno loro a occupare la maggior parte dei ‘lavori poveri’ che gli italiani non vogliono più fare e che non saranno comunque in numero sufficiente per farlo. Ma chi saranno gli impiegati nei posti di lavoro a maggior valore aggiunto? Anche qui ci servirebbero immigrati, ma quelli con scolarità e competenze adeguate. E qui emerge l’altro problema. L’Italia non offre loro la retribuzione al livello degli altri Paesi europei e quindi queste persone non vengono (e non verranno) da noi. Contemporaneamente i nostri giovani formati e competenti vanno e andranno all’estero dove sono meglio pagati.

Quale sarà dunque il destino del ceto medio tra 20 anni? Il trend di cambiamento di questa categoria sia dal punto tipo del ruolo economico sia per gli aspetti reddituali, è già in atto ed è più determinato dai cambiamenti strutturali della nostra economia che dalla relativa fiscalità e contrattualistica. Ma purtroppo si parla più di questi ultimi aspetti che di quelli strutturali. Come del resto accade anche per il Pil: il problema è strutturale, cioè come fare per aumentarlo in modo sistematico. Invece parliamo di Pil solamente per decidere come usarlo. E intanto tutto si riduce…

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Intelligenza Artificiale, tra pensiero laterale ed etica

L’Intelligenza Artificiale (AI) sostituirà l’essere umano? La domanda, in realtà, rischia di essere sterile, soprattutto perché nasce da un presupposto errato: l’AI non è un avversario, ma una rivoluzione epistemologica che sta riscrivendo le regole della conoscenza e della cooperazione. Non si limita a potenziare le nostre capacità operative, ma ne ridisegna la logica, il modo in cui le coordiniamo. Non elimina il ruolo dell’operatore, ma lo spinge a muoversi in maniera più sistemica, a ripensare il proprio rapporto con l’esistente. È uno scenario che richiede una nuova immaginazione organizzativa.

Se n’è discusso al Festival del Futuro Education 2025, evento di scenario che approndisce innovazioni e tecnologie e dedicato quest’anno al tema “Intelligenza responsabile: dall’Uomo vitruviano all’Uomo del silicio”. Giovedì 27 novembre, un dialogo particolarmente approfondito ha visto protagonisti Chiara Lupi, Direttrice Responsabile di MIT Sloan Management Review Italia (rivista di Edizioni ESTE, promotrice dell’evento), e Gianni Dal Pozzo, Amministratore Delegato di Considi, società attiva da oltre quarant’anni nell’Operations & Innovation Management e prima joint-venture italo-giapponese ad aver portato in Italia il Toyota Production System. Dal Pozzo è anche autore del volume Nuove tecnologie. Nuova civiltà (Edizioni ESTE, 2024).

L’AI genera nuovi modelli di business

Per comprendere cosa significhi davvero il passaggio dall’Uomo vitruviano all’Uomo del silicio, Lupi ha richiamato il pensiero degli economisti Philippe Aghion e Peter Howitt, premi Nobel 2025 per la loro teoria della crescita basata sulla “distruzione creativa”. Innovare, per loro, significa introdurre qualcosa di nuovo – dunque creare – ma anche superare ciò che non è più adeguato, come le aziende che non adottano nuove tecnologie sono rapidamente sorpassate.

Ma le aziende sono davvero consapevoli della portata di questo cambiamento? “La potenza creativa dell’AI è indiscutibile, anche se non sappiamo ancora dove ci conduce una tecnologia tanto dirompente. Per capirne la scala, pensiamo al paragone più immediato: l’era dell’AI è paragonabile all’era di Internet. Nessuno rinuncerebbe oggi al web, e accadrà lo stesso con l’AI”, osserva Dal Pozzo. Con una differenza: la velocità. Se i primi 100 milioni di utenti Internet furono raggiunti in sette anni, la versione 3.5 di ChatGPT ha impiegati appena 60 giorni. “È un salto esponenziale. L’AI genererà modelli di business che oggi facciamo fatica persino a immaginare. È creatrice, ma anche distruttrice, perché sostituirà i lavori a basso valore aggiunto”.

Evitare la formazione superspecializzata

E, parlando di velocità, se l’AI eccelle nell’analisi veloci, quali competenze diventeno strategiche per l’uomo? Il dialogo ricorda un punto essenziale: le macchine forniscono risposte, ma non pongono domande. Una distinzione decisiva. Come sottolinea Dal Pozzo, la riflessione è coerente anche con il pensiero di Peter Diamandis, fondatore della Singularity University, secondo cui entro il 2029 potremmo avere una superintelligenza artificiale più potente, sul piano cognitivo, dell’intera umanità. Eppure, anche in quello scenario, non vince l’algoritmo più sofisticato, ma chi è in grado formulare le domande migliori.

Il valore umano si sposta così su competenze come il pensiero laterale – la capacità di collegare elementi che statisticamente non hanno nesso – e il discernimento etico, cioè la capacità di decidere ciò che è giusto o sbagliato, dimensione che nessuna macchina può possedere. Da evitare, invece, la superspecializzazione, destinata a essere rapidamente superata dall’AI. “Serve una formazione ampia: tecnici che sappiano leggere un bilancio e umanisti che sappiano fare di conto”.

I robot come colleghi nelle fabbriche del futuro

Nonostante il dibattito crescente, l’adozione dell’AI nelle imprese italiane rimane limitata. Secondo i dati ISTAT, nel 2024 la utilizza soltanto il 6,9% delle piccole aziende e il 14,7% delle medie e grandi. “Il divario tra chi ha compreso la portata dell’AI e chi ancora dubita del suo valore è evidente. Ma oggi è impensabile non avere una strategia in questo campo”, afferma Dal Pozzo. Uno degli errori più diffusi, soprattutto nelle realtà più piccole, è delegare l’AI ai sistemi informativi come semplice esperimento, spesso con l’obiettivo di migliorare l’efficienza. Occorre invece ricordare che l’AI non è un tool, ma una leva per ripensare i modelli di business.

In questo scenario, la manifattura deve giocare un ruolo centrale e, al tempo stesso, mostrarsi ai giovani per superare l’immagine delle officine come luoghi di fatica, quasi dickensiani. “I robot umanoidi svolgeranno le attività manuali, mentre alle persone resteranno le decisioni, l’ascolto del mercato, l’innovazione di prodotti e processi”, conclude Dal Pozzo. Le fabbriche del futuro non sono soltanto automatizzate, ma soprattutto digitali. Perché è il digitale, oggi, la principale leva abilitante del futuro.

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La tecnologia ci ruba il tempo?

Avrebbe dovuto semplificarci la vita. Invece la tecnologia ci fa perdere un sacco di tempo. A lanciare l’allarme non è stato un vecchio trombone, ma niente di meno che Sam Altman, fondatore e CEO di OpenAI. La riflessione è nata in merito a Slack, il sistema operativo per le attività da ufficio tutto basato sull’Intelligenza Artificiale (AI) e nato per essere un boost della produttività che, in realtà, drena tempo inutilmente. Nel mirino, però, ci sono anche altre soluzioni tecnologiche, per esempio Google Docs, email e PowerPoint…

“Ci sono molti aspetti positivi, ma il punto è che si crea molto falso lavoro in più”, è stata la sentenza di Altman. Le sue parole sono diventati virali grazie al video dell’intervista, superando in breve le 3 milioni di visualizzazioni. Secondo il CEO di OpenAI, gli utenti si perdono tra documenti e notifiche. “Mi trovo a temere le prime ore del mattino o gli ultimi momenti prima di andare a letto, quando devo gestire questa specie di esplosione generata da Slack”, ha ammesso. E poi ha rilanciato: “Ci sarà forse bisogno di altro”.

Nello specifico potrebbe risultare utile una nuova tipologia di piattaforma, sempre guidata dall’AI, ma con all’interno dei tutor AI: agenti AI in altre parole, che interagiscono tra loro e siano in grado di gestire tutti i messaggi, le notifiche e i compiti da svolgere. Almeno in questo modo non si perderebbe tempo.

Una nuova sfida tra colossi del cloud

Le parole di Altman, tuttavia, contengono forse un messaggio che va al di là della critica alle piattaforme digitali: dietro la sua critica potrebbe celarsi, neppure troppo velatamente, un nuovo business. Ed Elon Musk, ha fatto sapere The Times of India, non ha perso l’occasione per intervenire sulla questione grazie alla sua piattaforma X, l’ex Twitter. “Come volevasi dimostrare, adesso OpenAI e Microsoft entreranno in competizione”, è stato il suo commento.

Per capire tale affermazione bisogna riavvolgere il nastro di qualche anno, quando è arrivata la decisione delle due aziende di diventare partner. Risale inoltre a ottobre 2025 un accordo che ha portato a consolidare la partnership. Adesso che OpenAI non è più una no profit bensì una società a scopo di lucro, la società di Bill Gates ne ha comprato il 27% per un valore di 135 miliardi di dollari.

Le affermazioni di Altman quindi, come ha suggerito Musk, farebbero pensare ad altro. E cioè che potrebbe essere pronto a produrre un nuovo tool che sia diretto competitor di Copilot, l’applicativo per ufficio di Microsoft, appunto. Altman lo ha in qualche modo lasciato intendere: in un recente post su X ha fatto riferimento a una nuova joint venture che potrebbe posizionarsi come principale antagonista dei giganti tech del cloud tra cui Google, Amazon e la stessa Microsoft. “Stiamo cercando di trovare il modo di vendere la capacità computazionale ad altre compagnie (e persone). Siamo abbastanza certi che il mondo avrà bisogno di molta AI cloud e noi non vediamo l’ora di offrirgliela”, ha scritto Altman.

OpenAI potrebbe insomma iniziare presto a vedere servizi cloud, andando a occupare spazi già presi da Microsoft Azure, Amazon Web Services (AWS) e Google Cloud. E non si può dire che Musk non avesse avvertito il CEO di Microsoft Satya Nadella della possibilità: “Vi si mangeranno vivi”, aveva detto in un’altra occasione. Chissà chi la vincerà.

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Transizione 5.0, un piano iniziato male e finito… peggio

Sullo ‘strano’ stop al piano Transizione 5.0 sono piovute le ipotesi più disparate di un fenomeno tanto interessante all’inizio, quanto disastroso alla fine. Oggi, non servono le giustificazioni ministeriali o le promesse di un nuovo piano per il 2026 a cancellare quasi due anni in cui molte imprese si sono illuse che potessero beneficiare dei quasi 7 miliardi di fondi messi a disposizione dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per le agevolazioni nella transizione green e digitale.

Un boccone amaro che ancora oggi pesa tra le aziende che avevano sperato in uno strumento agevolativo del calibro di ciò che fu Industria 4.0 nel 2016. Un piano che, analizzato oggi sui dettami iniziali e successivi, lasciava poco a sperare che fosse semplice accedervi. In primo luogo, le procedure base di accesso, l’approccio alla piattaforma del Gse e le lungaggini in attesa della puntata successiva: si ricordi l’attesa spasmodica della famosa circolare esplicativa che arrivata metà agosto 2024 che ha sparigliato tutte le carte per lunghezza e complessità di comprensione…

La successiva semplificazione, a puntate, della procedura di accesso alla piattaforma non è stata così semplice dato che, a conti fatti, le Piccole e medie imprese (PMI) che sono riuscite a presentare la domanda non sono state poi così tante… Poi c’è stata la rincorsa, a novembre 2025 per accedere ai fondi, ma dei quasi 7 miliardi di euro iniziati, ben 5 sono stati rimodulati su altre misure del Pnrr, lasciandone appena 2 al piano Transizione 5.0. Sappiamo già com’è andata a finire, con molte aziende che si sono mosse, ma con altrettante destinate a restare a bocca asciutta.

Le modifiche del piano erano già scritte

A novembre 2024, e ribadito di recente durante la presentazione del report sulle competenze digitali, era stata Paola Generali, Presidente di Assintel a lanciare l’allarme: “Le modifiche in corso al piano Transizione 5.0 da parte del Governo sono sicuramente migliorative, ma non risolvono il problema principale che non ha finora permesso al meccanismo di decollare”. Dal suo punto di vista c’era però una soluzione: “Perché questo avvenga c’è bisogno che gli incentivi alla digitalizzazione delle imprese siano disgiunti dal ritorno in termini di risparmio energetico. Il calcolo dei risparmi energetici, a cui sono vincolati gli incentivi, è difficoltoso e spesso un disincentivo”.

Il risultato, confermato da Generali era ben al di sotto delle attese: “Sono state poche le adesioni finora raccolte dal Piano; ben vengano le semplificazioni proposte nel decreto fiscale ma bisogna fare un passo ulteriore. Quello di cui c’è veramente bisogno è spacchettare il piano, facendone due, cioè un Transizione 5.0 per la digitalizzazione e un Transizione energetica 5.0, dividendo i fondi e massimizzandone così l’efficacia”. Secondo questa ricetta si potevano realmente aiutare le imprese italiane, che tra le varie sfide, devono far fronte alla carenza di risorse e finanziamenti, che la Presidente di Assintel considerava come il “primo ostacolo alla crescita”. Tutto questo fa ben capire come, gli enti preposti a seguire le aziende avevano già capito e dato indicazioni precise al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) su come sarebbe stato meglio agire.

Gli allarmi erano ben fondati

Oltre ad Assintel, altre associazioni di imprese (per esempio Confindustria) sono insorte, in particolare rispetto allo stop arrivato senza preavviso, considerato un segnale di instabilità o di mancanza di pianificazione coerente. La pezza, secondo Assolombarda, è arrivata dal Mimit che ha sottolineato di essere al lavoro per reperire risorse aggiuntive, per dare continuità alla misura o per trovare un ‘rifinanziamento’. Tuttavia, non è garantito che queste risorse arriveranno o che permetteranno di soddisfare tutte le domande rimaste in lista d’attesa.

Secondo la Cna di Modena molte aziende potrebbero restare escluse, pur avendo progetti già avviati, ma non ancora finanziati; la situazione può comportare rischi economici (per esempio ordini già dati, acconti pagati): per associazioni come Assolombarda, una chiusura improvvisa è un segnale negativo sulla stabilità delle politiche di incentivazione. Infine, c’è da rilevare che il Ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Transizione Digitale ha spiegato che le richieste ricevute fino al 31 dicembre 2025 restano valide, ma verranno esaminate in base alla disponibilità futura e in ordine di prenotazione.

Il rinvio della richiesta per accedere ai contributi

L’ennesima svolta (o toppa) è il Decreto-legge del 20 novembre 2025 che avrebbe dovuto lanciare acqua sul fuoco dei recenti malumori che si sono registrati su tutti i fronti. L’iniziativa in questione prevede lo slittamento della chiusura della piattaforma di accesso ai contributi per il 27 novembre 2025 al fine di accompagnare le aziende che abbiano già inviato la domanda per agevolazione e avessero i requisiti necessari, di beneficiare dei fondi e, al contempo, permettere a chi volesse ancora fare richiesta, inviare la domanda dalla piattaforma stessa.

Basterà questa proroga? A giudicare dalle reazioni del Presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, rilasciate a margine dell’assemblea 2025 di Sicindustria e riprese da Il Sole 24Ore, si potrebbe aprire uno spiraglio positivo. Ma secondo il vertice di Confindustria si sarebbe potuta estendere questa ‘proroga’ fino a fine 2025.

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Agentic AI, la tecnologia (quasi) sconosciuta

L’Italia affronta da tempo un problema strutturale: la crescita della produttività che ristagna. Non bastano nuovi investimenti né slogan sulla digitalizzazione: per dare una vera scossa all’economia serve una reinvenzione profonda dei processi aziendali, non solo l’adozione di tecnologie di moda. Recentemente, uno studio congiunto di Boston Consulting Group (BCG) e MIT Sloan Management Review (l’edizione italiana è pubblicata dalla casa editrice ESTE, editore anche del nostro quotidiano) ha lanciato un avvertimento potente: l’agentic AI non è semplicemente un nuovo strumento, ma può diventare un vero e proprio ‘collaboratore’ (almeno così la pensa il 76% dei dirigenti coinvolti nello studio). Per chi ancora non ne avesse sentito parlare, gli agentic AI sono i sistemi capaci di pianificare, agire e apprendere in autonomia.

Questa percezione non è un dettaglio semantico: ha conseguenze profonde su come le organizzazioni strutturano il lavoro, le risorse umane e la governance. In Italia, dove spesso il problema non è tanto la carenza di dati o di software, quanto un impasto di burocrazia, cultura aziendale conservatrice e scarsa formazione digitale, l’indicazione che arriva dallo studio risuona come un campanello d’allarme.

L’AI c’è, ma se le aziende non riorganizzano ruoli, processi e competenze, l’effetto potrà essere limitato o addirittura controproducente. Le aziende che investono in agentic AI rischiano di fallire se limitano la tecnologia alle vecchie dinamiche: “Mettere a forza l’AI in processi preesistenti è un errore, serve ripensare i flussi di lavoro fin dalle fondamenta”, avverte in una nota Shervin Khodabandeh, Managing Director di BCG.

Un futuro che cambia anche l’organizzazione

I dati del report BCG- MIT Sloan Management Review mostrano che molte imprese non sono preparate a questa rivoluzione. Solo una parte ha ristrutturato il proprio modello operativo, la governance o i piani di investimento per abbracciare davvero l’agentic AI. Secondo lo studio: il 58% dei leader AI prevede di cambiare le strutture di governance entro tre anni, con un aumento della partecipazione dell’AI nelle decisioni. Il 43% pensa di assumere più generalisti rispetto a specialisti, ridurre i livelli di management medio, diminuire i ruoli entry-level. In molti casi, i dipendenti riferiscono un miglioramento della soddisfazione lavorativa grazie all’uso dell’agentic AI, il che suggerisce che l’IA non è vista solo come una minaccia, ma come un supporto.

Se in alcune realtà globali la trasformazione può partire da un uso ‘pilota’ dell’agentic AI, in Italia c’è il rischio che tutto resti nella sperimentazione senza una visione strategica. Ed è qui, allora, che le imprese devono chiedersi: siamo pronte a rivedere l’organizzazione del lavoro? L’adozione dell’agentic AI richiede non solo automazione, ma anche un ripensamento di ruoli, reporting, responsabilità.

Inoltre: abbiamo le competenze giuste? Non basta la formazione tecnica sull’AI: servono competenze manageriali nuove, capacità di orchestrare l’interazione con sistemi autonomi, cultura della sperimentazione. Infine: siamo disposti ad assumere il rischio organizzativo? Innovare significa anche accettare che i processi non saranno perfetti fin da subito, che occorrerà iterare e fallire in parte per imparare.

In un contesto di produttività stagnante, la tecnologia può essere uno dei motori della ripresa. Ma l’agentic AI, se non abbinata a un rinnovamento dei processi e a un cambiamento culturale, rischia di essere un esercizio di stile, piuttosto che una leva strutturale di crescita. L’Italia ha un’opportunità: non inseguire solo l’adozione, ma guidare la trasformazione, disegnare modelli di lavoro che integrino l’autonomia dell’AI con la centralità del capitale umano, e costruire un ecosistema in cui l’innovazione non resti isolata, ma si diffonda dentro la catena del valore. Senza questa reinvenzione, rischiamo di rimanere indietro, ancora una volta, non per mancanza di tecnologie, ma per incapacità di ripensare davvero il modo in cui lavoriamo.

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Proteggere le aziende nell’era delle minacce digitali avanzate

Come ci si difende dalle minacce digitali avanzate? Quali sono le tecnologie che servono alle aziende? E quali i comportamenti da seguire per limitare le azioni fraudolente? Per rispondere alle domande, Parole di Management propone una tavola rotonda mercoledì 10 dicembre 2025 (dalle 10 alle 13 presso la sede del quotidiano), riservando la partecipazione agli esperti della materia: i partecipanti sono chiamati a confrontarsi sull’evoluzione delle minacce e a proporre soluzioni concrete di difesa dei nuovi perimetri aziendali.

La sintesi dei contenuti della tavola rotonda sarà oggetto di uno Speciale di Parole di Management.

Per candidarsi a partecipare alla tavola rotonda, scrivere a Giulia Zicconi (giulia.zicconi@este.it). La redazione valuterà le candidature per assicurare la buona riuscita dell’iniziativa editoriale.

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C’è chi piange e chi lavora: da che parte stai?

È un’economia in recessione quella italiana. Non è una novità, ma in pochi sembrano esserne accorti. Tra chi lo ha capito – e cerca di suonare la sveglia – ci sono Giorgio Merli (ex Country Leader di IBM Business Consulting Services) e Pietro Senaldi (Condirettore di Libero), autori del libro Sveglia! (Marsilio Editori, 2025). Nelle loro riflessioni, i due autori hanno scelto di partire dai fatti, come il dato di crescita del Pil reale che dal 1999 a oggi è cresciuto appena del 9%, mentre altri Paesi sono cresciti a doppia cifra: +30% la Francia, +150% gli Usa e +500% la Cina. A finire sotto le accuse di Merli e Senaldi sono in particolare i luoghi comuni, come la polemica degli stipendi troppo bassi: tutti ce ne lamentiamo, ma chi si chiede davvero se il proprio lavoro generi abbastanza valore? I due si scagliano anche contro il ‘piccolo e bello’, per ricordare ai lettori che innovazione e crescita sono alimentate dalle grandi imprese e non dalle micro…

Che cosa stiamo quindi facendo per svegliarci? Chi non cambia per scelta – è il monito di Merli e Senaldi – sarà presto costretto a farlo a seguito degli eventi. Del tema ne parliamo nella puntata di venerdì 28 novembre 2025 di PdM Talk, il talk show settimanale di Parole di Management che va in onda in diretta streaming ogni venerdì dalle 12 alle 13 (la diretta è visibile sul sito del quotidiano, sul canale YouTube di Parole di Management e sul profilo ESTE di LinkedIn).

In ogni puntata i rappresentanti della grande community di imprenditori e manager della casa editrice ESTE e di Parole di Management si confrontano sulle questioni di attualità – dagli avvenimenti della politica alle mutazioni della società – che hanno un interesse per chi gestisce e vive le organizzazioni.

Gli ospiti della puntata del 28 novembre 2025:

Giorgio Merli, ex Country Leader di IBM Business Consulting Services

Pietro Senaldi, Codirettore di Libero

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Istituti tecnici quinquennali, serve la riforma (con urgenza)

Lo scriviamo da anni che serve una riforma dell’istruzione tecnica secondaria, ma è stata rallentata dalla filiera formativa del 4+2. Stiamo ora arrivando con grave ritardo alla vera riforma, che, integrata in un forte sistema istituzionale assieme all’istruzione terziaria, avrebbe dovuto costituire la nuova architettura di un sistema scolastico di eccellenza. Così non è stato previsto. Si è preferito procedere con soluzioni diverse, che hanno bisogno continuamente di essere commentate, per rappresentare una visione alternativa a quanto viene comunicato.

Anzitutto, per ragioni di chiarezza, dobbiamo intenderci su un punto importante. Se stiamo al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), per la Commissione europea la riforma attesa –  che concorrerà all’erogazione della quota di finanziamento prevista – è quella dell’istruzione tecnica quinquennale avviata dal Governo che ha preceduto quello attualmente in carica. Solo successivamente, l’apparato normativo è stato integrato con la filiera tecnologica professionale quadriennale della cosiddetta 4+2, la quale tuttavia, per la medesima Commissione europea, non è da considerare sostitutiva della riforma originaria dell’istruzione tecnica quinquennale programmata nel Pnrr.

La filiera formativa del 4+2, che dal 2025-26 diventerà ordinamentale, per quanto abbiamo già scritto è prevalentemente un accorciamento dei programmi di studio da cinque a quattro anni. E, “il rinnovo del programma, puntando sulla qualità e sul potenziamento delle materie base italiano, inglese e matematica, creando una inversione di tendenza positivo”, come ha affermato Giuseppe Valditara, Ministro dell’Istruzione e del Merito in una sua dichiarazione, non è nulla di nuovo, ma rientra nelle ordinarie azioni di manutenzione dei programmi scolastici di tutti i percorsi ordinamentali.

Non è una buona ragione neppure affermare che le prove Invalsi indichino che in Lombardia i percorsi della formazione professionale quadriennale abbiano prodotto, nelle discipline fondamentali, risultati migliori degli omologhi percorsi quinquennali statali. Ciò, per due motivi: il primo perché si confrontano dati rilevati da un campione di studenti irrisorio, mentre il confronto lo si dovrebbe fare a livello nazionale e non solo sulla Lombardia; il secondo perché con tale affermazione si corre il rischio di delegittimare i percorsi quinquennali statali, che accolgono il 98% degli studenti dell’istruzione tecnica e professionale e, dunque, in questo modo certamente non si incentiva l’attrattività verso gli istituti tecnici, di cui invece ne abbiamo un grande e urgente bisogno.

I paragoni fuorvianti con la formazione estera

Occorre anche commentare il paragone che si fa con i sistemi scolastici esteri, quando si afferma che “il modello a quattro anni mostra performance superiori nei test Pisa (acronimo di Programme for international student assessment, che valuta le competenze degli studenti in lettura, matematica e scienze ogni tre anni, Ndr) rispetto a quelli italiani”. Innanzitutto, nel confronto tra due sistemi – qualunque essi siano – occorre tener conto di tutte le loro ‘dimensioni’: è come se confrontassimo due grandezze vettoriali, solo attraverso la loro dimensione scalare.

I sistemi scolastici esteri, quelli con cui ha senso confrontarsi, sono prima di tutto performanti, ossia nelle classifiche Ocse per l’education sono in ottime posizioni, mentre il nostro Paese non lo è. E i loro percorsi tecnici e professionali non sono percorsi di serie B o di serie C, mentre il nostro sistema scolastico, proprio nell’ultimo Rapporto del Censis, è stato definito “la fabbrica degli ignoranti”, con una percentuale elevatissima di studenti che non raggiungono gli obiettivi minimi di apprendimento in italiano, matematica e inglese. È ragionevole affermare che, per migliorare tali esiti non ci sarebbe bisogno di nessuna riforma, basterebbe invece far funzionare bene la scuola, certamente non con una soluzione che consente di acquisire il diploma riducendo di un anno il percorso di studi. Le riforme servono a ben altro scopo.

 Che “le imprese italiane non trovano giovani con le competenze necessarie, rischiando di perdere competitività”, come ha affermato Valditara, lo sappiamo da tempo, ma la soluzione non è la filiera formativa 4+2. Ho scritto appositamente un libro e continuo a scrivere articoli per allargare gli orizzonti su questi argomenti confinati in un perimetro molto ristretto, e che avrebbero bisogno di un grande dibattito. E la ragione per cui la 4+2 non può essere la vera sfida della scuola del futuro, è anche conseguente a un fatto concettuale tecnico molto semplice: la sua architettura formativa non trova una collocazione ragionevole nel perimetro delle architetture di un sistema di istruzione tecnica, che deve essere coerente con gli insiemi di saperi e di cultura che attengono alle tre classificazioni dedotte dal quadro delle professioni tecniche.

Il flusso logico – da tenere sempre presente – che dovrebbe costituire una delle dimensioni del capitolato di riforma, collega il quadro del sistema economico, in tutte le sue articolazioni, con il quadro delle aree delle professioni in tutte le loro dimensioni, per giungere al quadro dei percorsi formativi con tutte le loro architetture. Dentro questi perimetri di rappresentazione sistemica, che sono essenziali per l’individuazione dei saperi e dei contenuti, la filiera formativa 4+2 mal si inserisce, se non come una opzione di un intervento di formazione, o addestramento, professionale.

Senza riforma la produttività resta al palo

Non passa giorno che non si lanci l’allarme sul peggiorare di alcuni indicatori economici e sociali che nel post Pnrr – quando verranno a mancare i relativi finanziamenti straordinari – assumerà un rilievo sempre più preoccupante. Ne ha parlato anche una persona autorevole, Salvatore Rossi, già Direttore Generale di Bankitalia, che in una sua intervista a La Repubblica ha descritto un quadro strutturalmente debole per la crescita italiana.

Secondo le previsioni della Commissione europea, l’Italia crescerà meno della media dell’Unione europea, perché le nostre criticità – come spesso abbiamo detto – sono di natura strutturale quindi permanente e non congiunturali ossia legate al ciclo economico. Anche secondo l’autorevole economista, la causa – come rilevato da altri esperti e oggettivamente riscontrata anche dai numeri – risiede nella dinamica della produttività. Lo abbiamo detto più volte argomentando sull’elevato valore del costo unitario per prodotto nonostante i salari bassi.

La mancata crescita della produttività del lavoro e del capitale riduce gli spazi per l’aumento dei redditi e per gli investimenti in innovazione, i due pilastri per sostenere la competitività. Senza produttività non si cresce, non si innova, non si aumentano gli stipendi, non si migliora l’employability, non si riduce il precariato e si mette a rischio il welfare. Ed è la ragione per cui abbiamo bisogno di una istruzione tecnica di eccellenza. È ampiamente scritto nel mio saggio Ricostruire l’istruzione tecnica.

Senza saperi non si costruiscono le competenze

Come ha scritto anche il Cnel nel suo Rapporto recente sulla produttività, l’analisi di Rossi individua nell’assetto del sistema produttivo italiano uno dei principali fattori di freno. Il Paese è infatti caratterizzato da una prevalenza di microimprese e piccole imprese. Anche i gruppi di maggiore rilievo – nella descrizione dell’economista – operano spesso con scale operative ridotte in confronto ai pari settore di altri Stati membri.

La struttura frammentata del tessuto imprenditoriale italiano penalizza i livelli di produttività e la capacità di innovare e rende più difficile competere su mercati globali e innovativi. Anche gli investimenti in macchinari, infrastrutture digitali e innovazione risultano insufficienti a colmare il divario con i principali partner europei. La trasformazione digitale del sistema produttivo procede con velocità eterogenea, con differenze marcate tra settori e territori. È scritto bene nel libro Trasformazione aziendale di Bruno Carminati, Emanuele Farinella, Fabio Gnoato (Guerini Next, 2023).

Un ulteriore elemento critico – che è poi il focus principale dei nostri interventi – riguarda i ritardi nel sistema di istruzione, ovviamente riferendosi prioritariamente all’istruzione tecnica. Detto in altro modo: manca la conoscenza di nuovi saperi e quindi l’impossibilità di costruire le competenze. Ma, purtroppo, manca anche la conoscenza dell’importanza strategica del sistema economico industriale e di come costruire una riforma adeguata dell’istruzione tecnica che sia funzionale alla sostenibilità e crescita economica e sociale, e attrattiva per i nostri giovani.

La necessità di un capitolato per la riforma

L’intervento riformatore degli istituti quinquennali è pur sempre un processo di cambiamento e come tale va gestito applicando correttamente le sue giuste grammatiche. Ci sarebbe bisogno di una preliminare explicatio terminorum per derimere una confusione concettuale e terminologica che ci si trascina da tempo e che inquina le riforme.

Poi, per i vincoli di sistema che si dovranno affrontare, che costringono a scegliere soltanto un approccio bottom up, occorrerebbe anche avere, ai fini di un adeguamento e aggiornamento dei contenuti della formazione, una buona dose di ‘strabismo’, ossia la capacità di integrare la verticalità degli indirizzi scolastici attuali con l’orizzontalità e quindi la trasversalità degli ambiti applicativi dei medesimi contenuti. Ciò costringerà a ricercare nelle due dimensioni la catena del valore, quella da cui estrarre le informazioni per la costruzione dei contenuti. In questi ambiti organizzativi e lavorativi si individuano le zone nelle quali si deve costruire il protagonismo dei giovani aspiranti tecnici. Queste procedure devono poi fare emergere un’alta attrazione verso il mondo delle professioni tecniche e dell’istruzione tecnica.

Non è sufficiente disporre della miglior riforma, se questa non ha poi un efficace sistema di attrazione che attiri tutti i portatori di interesse. Ecco perché insisto sulla necessità che la riforma dell’istruzione tecnica quinquennale, sia pur nelle ristrettezze in cui è costretta, sia guidata da un chiaro capitolato, inteso come quadro di riferimento concettuale in base al quale progettare, secondo un preciso e articolato processo logico, le linee di intervento.

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