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Sviluppo industriale, il Mimit progetta il piano pluriennale

Il piano Transizione 5.0 è terminato sfiorando il ridicolo. Se da un lato l’Italia ha avuto, per alcuni aspetti, le mani legate con l’Unione europea a causa dei fondi che arrivavano da Next Generation EU e dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), dall’altra, le imprese non hanno trovato terreno facile sulle applicazioni per aggiudicarsi gli incentivi. In quest’ultimo caso sono note le lungaggini al via libera e, successivamente, le complicazioni burocratiche che hanno demoralizzato le stesse aziende sulla richiesta dei fondi. Ecco perché si può, a ragione, considerare il piano un flop. Ma ora si vede la luce in fondo al tunnel.

Di recente il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) ha accelerato sulla riformulazione degli strumenti a sostegno dell’industria: dall’aggiornamento degli allegati tecnici alla proposta di trasformare la misura in una politica pluriennale, fino alla volontà di rinunciare al tradizionale decreto interministeriale per far partire già la richiesta degli interventi attraverso la piattaforma Gse, dal 1 gennaio 2026.

Le anticipazioni sono arrivate da Marco Calabrò, Capo del Dipartimento per le Politiche per le Imprese, impegnato nella rimodulazione delle norme e della loro traduzione in provvedimento, durante l’evento dal titolo “Finanziare l’innovazione: strumenti, strategie e opportunità per le imprese nel 2026“, tenutosi presso il MADE Competence Center Industria 4.0 di Milano. La partita, però, si gioca nella legge di Bilancio 2026 e, soprattutto, sulla copertura di queste misure.

Pluriennalità e regole di allocazione

Calabrò ha confermato l’intenzione di partire con un nuovo piano di misura pluriennale: si parla di un orizzonte di almeno biennale, quindi a tutto il 2027, ma il Capo del Dipartimento per le Politiche per le Imprese ha lanciato l’ipotesi di considerare anche il 2028. L’obiettivo è dare alle imprese la certezza necessaria a programmare investimenti e richieste. Gli imprenditori dovrebbero esultare dato che, fin dal 2017, all’indomani del ben più fortunato piano Industria 4.0 che nel 2016 diede davvero una boccata d’ossigeno alle imprese, avevano sempre richiesto una manovra di sviluppo pluriennale.

Tuttavia, la scelta pluriennale ha un costo: “Dovremo reperire risorse aggiuntive”, ha spiegato Calabrò. Ci saranno dunque inevitabili impatti su alcune regole di allocazione e sulla capacità di coprire tutte le spese delle imprese interessate. Per questo motivo, l’esponente del Ministero ha confermato che sono in corso anche aggiornamenti tecnici degli allegati A e B, fermi al 2016, con parte delle novità rivolte al mondo software (sostenuti grazie all’Iperammortamento 5.0) e all’elenco delle operazioni ammissibili.

Addio al decreto interministeriale? Partenza accelerata

Una delle novità più rilevanti è poi la volontà di evitare i tempi lunghi del decreto interministeriale: lo schema, secondo il Dipartimento per le Politiche per le Imprese, rallenta troppo l’operatività. L’obiettivo è rendere la misura immediatamente disponibile attraverso la piattaforma GSE, con una data di avvio pratica fissata, se l’iter lo consentirà, già al 1 gennaio 2026. Tra gli aggiustamenti tecnici più concreti c’è la proposta di allungare la cosiddetta ‘coda alla consegna’ da sei a nove mesi, spostando il termine pratico delle consegne per beneficiare degli inventivi, da giugno a settembre 2028.

La logica è semplice: gli ordini richiedono più tempo di quanto ipotizzato in origine – componentistica, tempi di installazione e Supply chain hanno bisogno di una finestra più ampia – e allungare il periodo di consegna è necessario per evitare che progetti validi restino fuori per ragioni temporali. Tutto questo sarebbe ipotizzabile nel caso in cui la copertura fosse biennale, quindi per ordini effettuati entro il 31 dicembre 2027.

Tra le parti più delicate del piano c’è infine la formazione. Se da una parte la linea Industria 5.0 era prevista come una delle tre direttrici principali, i segnali di domanda sono modesti: “Quasi nessuna impresa ha chiesto risorse per la 5.0”, hanno evidenziato dal Ministero. Al contrario, si è registrata una forte domanda quando la formazione è stata estesa ai percorsi formativi interni e alla riqualificazione delle competenze. Il punto critico è chi deve erogare la formazione: serve personale e strutture qualificate. I Competence Center sono stati indicati come soggetti idonei a trasmettere le informazioni e a formare, e il Mimit dovrebbe garantire una linea specifica di finanziamento per sostenere questi percorsi. Tuttavia, la scarsità di richieste su alcune linee e la necessità di standardizzare qualità e competenze rimangono una preoccupazione aperta.

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Lavoro, la Manifattura è ancora sexy

A poca distanza dal fenomeno della Great Resignation i recruiter sono ancora alle prese con il problema del reperimento e anche del cosiddetto ‘trattenimento’ dei talenti. La congiuntura economica è ora cambiata e la questione non è più l’emergenza delle grandi dimissioni. Ma il trend prosegue e adesso le persone tendono perfino a cambiare carriera, oltre che posizione, come ha evidenziato di recente il World economic forum. 

In testa pende la spada di Damocle dei cambiamenti tecnologici: le competenze sono diventate talmente volatili che non basta il reskill, quindi l’acquisizione di nuove conoscenze, ma costringe a reinventarsi in altri ruoli specie se quello che si ricopre non è estremamente specialistico. 

Il problema del lavoro quindi resta. Ed è un macigno per gli imprenditori, che devono affrontare il costo della mancanza di personale e della continua ricerca di persone. Mentre i lavoratori si destreggiano tra vacancies dove si può restare a lungo, ricompensati da carriere stabili e acquisizione di competenze, e impieghi ‘tossici’, senza possibilità di crescita e basse retribuzioni. 

I lavori che non si lasciano scappare

Le sfumature sono diverse a seconda dei casi. Ci sono lavori, come ha riportato un articolo di Quartz, dove le persone sembrano mettere radici. Altri invece da cui non vedono l’ora di fuggire. Quel che è certo è che è il tasso di turnover a fornire il polso della situazione: più è alto e più è indice di qualcosa che non funziona. 

Media, comunicazione e arte sono i settori in cui i lavoratori tendono a restare di più. A dirlo è un sondaggio di Indeed. L’impressione è che il comparto sia peculiare, essendo il business basato sulla creatività delle persone e si cerchi così di incoraggiare la lunga durata dell’impiego. Segue il mondo tech. Qui i professionisti si licenziano molto poco, ha svelato uno studio Mercer. Il turnover è appena dell’8,2%, che è più alto della media globale, ma è ancora inferiore rispetto ad altre aree dei servizi. 

Del resto nel settore le ricompense non mancano: stipendi alti e possibilità di carriera sono grandi ancore della ‘retention’. E lo stesso vale anche per medici e chirurghi. A ‘incollare’ i professionisti alle poltrone sono la lunga formazione e i forti incentivi che offrono le aziende che li accolgono.

La sorpresa della Manifattura 

Anche la Manifattura, forse un po’ a sorpresa, fa parte del settore con i lavori più ambiti. Un report di Second Talent ha assicurato che il tasso di turnover non supera il 18,9%: una quota molto più bassa di tanti altri servizi ad alto tasso di abbandono. Una spiegazione ci sarebbe: il lavoro manuale, dove il perfezionamento delle abilità conta molto, spinge a non cercare altrove e a resistere più a lungo possibile. 

Ma l’attaccamento verso un mestiere si verifica anche quando di mezzo c’è un impegno e un’etica: è il caso per esempio dei presidi scolastici, che tendono a restare in media cinque anni al loro posto. Ad attrarre molto meno è invece il Retail, come ha sottolineato di nuovo Mercer. Qui il turnover volontario è del 37%, ben al di sopra della media. Il segnale che il malcontento serpeggia. Colpa di paghe minime, orari instabili e scarse possibilità di crescita professionale. 

Ancora peggio va, più in generale, nel settore food e ristorazione, dove il ricambio di personale (la fonte è sempre Second Talent) arriva al 75,2%: il lavoro stagionale, i bassi salari e la forte pressione dovuta al tipo di lavoro rendono la vita dei lavoratori più difficile e abbassano la soglia di sopportazione. Lo stesso succede nel Turismo. Qui il tasso di abbandono è del 25%, come conseguenza della tipologia di offerta, per lo più posizioni saltuarie ed entry level.

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Sciopero, chi paga la produttività persa?

È un aspetto a cui si pensa meno malgrado la sua centralità. Ed è la produttività che si perde, il denaro in fin dei conti, quando si verifica uno sciopero. Non solo in termini di buste paga, perché – va detto – aderire a una manifestazione di questo tipo, benché sia un diritto, significa per il lavoratore rinunciare a una parte di retribuzione: è una trattenuta che, per un giorno intero, equivale a un 30esimo dell’imponibile fiscale.

L’impatto è però anche su larga scala, e sull’indotto. Si vede bene per esempio nei mancati incassi. Ne sanno qualcosa a Londra, teatro a settembre 2025 di uno sciopero della metropolitana durato ben cinque giorni. Perfino i concerti ne hanno risentito: i Coldplay hanno dovuto riprogrammare due show. Il motivo delle rimostranze? Una revisione delle condizioni contrattuali, in particolare una riduzione della settimana lavorativa da 35 a 32 ore.

Le piccole attività sono le più svantaggiate

A fare le spese del funzionamento limitato della celebre tube londinese – che trasporta circa 3 milioni di passeggeri al giorno – sono state proprio le piccole attività, quelle dove si entra perché si è di passaggio. “Saranno quelle più danneggiate, dovremmo lavorare tutti per trovare soluzioni costruttive che salvaguardino le economie locali e minimizzino gli impatti sulle microimprese”, ha commentato alla Bbc Sarah King, manager della società di consulenza Federation of Small Business.

Perderemo 6-700 sterline al giorno (680-800 euro, ndr), un budget che forse un giorno ci potremo permettere, ma che al momento è impossibile da recuperare”, ha detto invece Prasanna Callaghan, titolare del bar Crumpets Cafe nella zona di Buckingham Gate, nel centro della capitale inglese. La pensano allo stesso modo i proprietari di Mildreds, ristorante vegano del quartiere Soho. Per loro, hanno spiegato, una settimana di scioperi potrebbe significare la cancellazione di decine prenotazioni.

Gli effetti su larga scala degli scioperi

Calcoli più specifici arrivano, invece, dall’istituto Centre for Economics and Business Research, secondo cui uno sciopero di grande portata come quello della metropolitana, che ha visto l’adesione di circa 6mila lavoratori (poco più della metà dell’intero organico) potrebbe sottrarre all’economia in modo diretto circa 230 milioni di sterline (pari a 263 milioni di euro). Il che metterebbe in conto poi solo una parte delle perdite, perché gli effetti indiretti sono più complessi da calcolare.

In particolare, a detta del centro di ricerca, a essere più colpiti sono una rosa di settori che vanno dai Servizi professionali al Retail e all’Hospitality. Le ragioni sono evidenti: produttività ai minimi a causa delle difficoltà dei dipendenti di arrivare in ufficio o dei ritardi; meno persone in circolazione e quindi meno consumi; traffico congestionato per le vie di Londra per tutti gli slittamenti e la conseguente mancata produzione. Senza contare un altro aspetto: come ha fatto l’associazione britannica Centre of the cities dal 2024 a Londra si era riscontrata una certa tendenza al rientro in ufficio. Ma gli scioperi potrebbero invece provocare l’effetto contrario e cioè stimolare una virata verso il lavoro da remoto.  

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La gestione delle buste paga globali con tecnologie, processi e competenze

In un’epoca in cui agilità e precisione definiscono il successo aziendale, le imprese di medie dimensioni si trovano ad affrontare un labirinto di sfide: dal trattenimento dei talenti alla conformità normativa. Al centro di queste sfide si trova una funzione spesso sottovalutata: la gestione globale delle buste paga. Gestire le buste paga in più Paesi non è solo un dovere amministrativo, ma una necessità strategica che sostiene la reputazione e l’efficienza operativa di un’azienda, soprattutto nella fase di espansione delle imprese di medie dimensioni.

Una gestione efficace delle buste paga è fondamentale per mantenere la fiducia dei dipendenti e garantire la conformità con normative complesse e spesso contrastanti nei diversi Paesi. Uno studio di E&Y ha rivelato che il 20% delle buste paga contiene errori, con un costo medio di 291 dollari per la correzione di ciascun errore, a dimostrazione dell’importanza della precisione e della conformità nei processi di payroll.

La conformità con gli aspetti normativi

Una delle principali sfide per le aziende di medie dimensioni che si espandono in diversi Paesi – o persino in diverse regioni all’interno dello stesso Paese – è la conformità con leggi e regolamenti sul lavoro in costante evoluzione. Per esempio, Belgio, Francia, Grecia e Paesi Bassi hanno introdotto nuove norme su straordinari, orari di lavoro flessibili e inclusione delle indennità nel calcolo delle ferie o delle assenze per malattia.

Inoltre, le ricerche di ADP mostrano che le multinazionali utilizzano in media 32 sistemi o fornitori di payroll: una frammentazione che aumenta la probabilità di errori, rischi di non conformità e inefficienze nei pagamenti. La mancanza di una visione integrata della forza lavoro globale rende difficile gestire i costi, garantire la conformità e assicurare pagamenti transfrontalieri tempestivi.

Allo stesso tempo, la carenza di competenze in questo ambito continua a farsi sentire: la crescente complessità della gestione delle buste paga internazionali richiede competenze multidisciplinari e multi-giurisdizionali. Secondo l’indagine annuale di ADP dal titolo “Potential of Payroll”, che coinvolge dirigenti di aziende multinazionali di tutto il mondo, l’83% degli intervistati afferma che la propria organizzazione sta ampliando il reparto payroll, ma il 61% segnala che la carenza di competenze ha avuto un impatto negativo sul servizio offerto.

Il rischio di perdere la fiducia dei dipendenti

Le imprecisioni nel payroll comportano conseguenze che vanno ben oltre le perdite economiche immediate. Oltre alle sanzioni normative, le aziende possono incorrere in ripercussioni legali, mettendo ulteriormente sotto pressione le risorse aziendali: secondo l’ADP Global Compliance Report, il 72% delle aziende multinazionali considera i cambiamenti normativi la principale sfida di conformità. Non solo, pagamenti errati o in ritardo possono erodere la fiducia, ridurre la produttività e aumentare il turnover.

Per ridurre i rischi e migliorare i processi, le aziende di medie dimensioni con ambizioni internazionali dovrebbero adottare un approccio integrato alla gestione delle buste paga, basato su tecnologia, controllo, competenze e partnership strategiche. È fondamentale investire in sistemi di payroll avanzati e unificati che automatizzino i calcoli multi-Paese, riducano gli errori manuali e garantiscano la conformità fiscale locale, offrendo una ‘fonte unica di verità’ per l’intera forza lavoro globale e semplificando la gestione dei pagamenti e delle valute.

Parallelamente, effettuare audit regolari a livello internazionale permette di individuare e correggere tempestivamente eventuali discrepanze, assicurando trasparenza e coerenza nei processi. Un elemento altrettanto cruciale è la formazione continua del personale HR e payroll, affinché sia costantemente aggiornato sulle normative e sulle best practice globali, migliorando la capacità di gestire la complessità transnazionale. Infine, l’outsourcing totale o parziale delle buste paga globali consente di sfruttare servizi e competenze specialistiche, ridurre i carichi amministrativi e ottenere dati unificati, permettendo all’azienda di concentrarsi su attività strategiche e sulla propria crescita.

Dare priorità a processi di payroll accurati e pienamente conformi alle normative è fondamentale per le aziende di medie dimensioni che aspirano a crescere e distinguersi in un mercato globale sempre più competitivo. Oltre a evitare sanzioni, una gestione efficace delle buste paga favorisce una cultura aziendale positiva, migliora la fidelizzazione dei dipendenti e rafforza la reputazione dell’azienda come datore di lavoro affidabile. Implementando sistemi di payroll globali solidi e unificati e restando aggiornate sui cambiamenti normativi internazionali, le organizzazioni possono proteggere le proprie operazioni, ottenere una visione chiara dei costi del personale globale e concentrarsi su una crescita sostenibile.

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Digital Supply chain, una nuova visual identity per sedApta

È una nuova tappa per sedApta. A poco più di un anno dall’entrata definitiva nell’orbita di Elisa Industriq, l’azienda specializzata nella digitalizzazione dei processi produttivi e della Supply chain si è rifatta il look per proiettarsi nel nuovo capitolo della sua storia. Il 9 dicembre 2025 sedApta ha svelato la sua nuova identità grafica, completando l’integrazione definitiva nella società di software per l’intelligenza operativa di Elisa, il gruppo finlandese di telecomunicazioni e di servizi digitali.

Il simbolo scelto per la nuova visual identity è l’aurora boreale, ed è il risultato di un approfondito lavoro di analisi identitaria e di mercato. La sua scelta racchiude, infatti, diversi significati: richiama le origini finlandesi di Elisa e incarna la volontà di costruire una vera ‘one company’. L’idea di unità, tuttavia, non cancella la storia di sedApta; anzi, il nuovo logo ne custodisce l’eredità, perché i colori dell’azienda – blu, verde, rosa e giallo – si sono fusi nei riflessi dell’aurora, mantenendo un forte legame identitario. “Unire le nostre identità non significa rinunciare alle specificità, piuttosto intende valorizzare ciò che ciascuna realtà porta di singolare al gruppo”, sottolinea Pietro Cuttica, Sales & Marketing Director dell’azienda fondata dal padre Giorgio nel 2014 e dall’autunno 2024 guidata dalla sorella Benedetta Cuttica.

Proprio come le luci dell’aurora si fondono armoniosamente nel cielo, così dialogano tra loro le diverse realtà dell’ecosistema di Elisa Industriq, che conta realtà come camLine (Quality management), TenForce (sicurezza industriale), CalcuQuote (Supply Chain elettronica), Polystar (customer experience) e Gridle (ottimizzazione dei costi e sostenibilità). La nuova visual identity di sedApta rappresenta anche valori riconosciuti da sempre all’azienda genovese dai clienti: saggezza, competenza e pragmatismo.

La forza di un gruppo globale

Per i clienti, soprattutto in Italia, la quotidianità non cambia. “Siamo gli stessi di sempre: la differenza è che oggi possiamo contare su un gruppo globale che ci consente di investire ancora di più nello sviluppo del prodotto, nell’Intelligenza Artificiale (AI), nell’ammodernamento tecnologico della suite e nel supporto lungo tutto il ciclo di vita delle nostre soluzioni”, prosegue Cuttica. Al centro dell’offerta tecnologica ci sono DDM+, la piattaforma decisionale unificata per la gestione dinamica dell’intera Supply chain, e LUMI VM, l’assistente digitale basato su AI che supporta forecast, simulazioni, automazione dei processi e raccomandazioni operative.

In linea con la nuova identità, è in fase di sviluppo anche un sito web unificato che raggruppa tutte le business unit di Elisa Industriq, per offrire ai clienti un’esperienza di navigazione integrata, informazioni chiare sui prodotti e un accesso semplificato ai servizi. “Il nuovo portale è uno dei tasselli fondamentali del percorso verso la one company; un ambiente digitale condiviso capace di rappresentare l’ampiezza dell’offerta e facilitare la collaborazione tra i team. L’obiettivo è rendere immediatamente percepibile la forza di più aziende che guardano al futuro con un’identità unica e riconoscibile”, conclude Cuttica.

L’espansione sui mercati internazionali

Quello tra Elisa e sedApta è stato un percorso di avvicinamento iniziato nel 2021, quando l’azienda finlandese acquisì il 19% del capitale, aumentando progressivamente la propria quota fino al completamento dell’acquisizione avvenuto nell’ottobre 2024. Parallelamente, è nata Elisa Industriq Italy, la regional company italiana, che ha inglobato Atomos Hyla, la storica società del gruppo sedApta specializzata in soluzioni digitali per la Supply chain e la gestione dei processi produttivi.

L’ingresso in Elisa Industriq rappresenta, quindi, per sedApta un’evoluzione strategica di grande rilievo. L’integrazione permette infatti di accedere a competenze distribuite su scala internazionale, attivando nuove sinergie nell’ambito della ricerca e sviluppo, dell’analisi dei dati industriali e delle architetture cloud. Grazie alla forza della rete commerciale del Gruppo – oggi conta 149 milioni di euro di fatturato, oltre 500 collaboratori (solo sedApta; Elisa Industriq conta 1500 collaboratori in tutto il mondo) e sedi operative in sette città italiane – l’azienda può ora operare su mercati più ampi, accelerando la diffusione delle proprie tecnologie a livello europeo e globale.

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Italia e AI: investimenti alti, risultati bassi

L’Italia vede di buon occhio l’Intelligenza Artificiale (AI) e lo dice chiaro: dal sondaggio Red Hat 2025 emerge che più del 75% dei capi IT pensa che tra tre anni il Paese possa giocare un ruolo importante a livello mondiale in ambito AI. Una visione positiva, certo, però non così alta come in realtà vicine come la Spagna, la Germania, l’Olanda o la Svezia dove quasi tutti ci credono (oltre il 98%). Questo impulso porta a scelte precise: in Italia, le aziende pensano di aumentare del 35% la spesa per l’AI entro il 2026; intanto, l’AI è terza nella lista delle priorità tecnologiche, subito dopo sicurezza digitale e riduzione dei costi.

Il dato più inaspettato, quasi allarmante, è che 86 aziende su 100 in Italia dicono di non averci guadagnato nulla con l’AI, almeno finora. Secondo Giorgio Galli, Director Tech Sales, Red Hat Italy, è un campanello d’allarme: “L’AI e la sicurezza sono al top delle richieste tecnologiche; però c’è una distanza netta tra quanto si spende e i risultati concreti. Un problema legato pure a barriere solide, tipo l’assenza di ritorni misurabili, strutture troppo deboli oppure divisioni rigide tra reparti informatici ed esperti di intelligenza artificiale”.

A peggiorare le cose c’è la diffusione dell’AI ‘nascosta’: nel 93% dei casi, i lavoratori usano tool automatici non approvati, soprattutto quando mancano risorse oppure gli strumenti interni sembrano poco efficaci. C’è poi la questione delle abilità. Un’azienda su due in Italia dice di avere poche competenze sull’AI, meno della media dell’area Europa-Medio Oriente-Africa, dove invece arriva a sette su 10. In molti nel nostro Paese pensano sia essenziale migliorare le capacità individuali e generiche, insieme con le conoscenze sulla protezione dei dati, oppure sulle strategie aziendali.

Il problema più difficile rimane collegare l’AI ai dati e ai sistemi già presenti in azienda. Alcuni responsabili IT pensano che sia utile formare le persone a usarla bene, così da capire come inserirla nei flussi di lavoro quotidiani.

Serve tornare proprietari dei processi

Rodolfo Falcone, Amministratore Delegato, Red Hat Italy, vede una svolta storica: “Ora viviamo nell’epoca dell’AI per tutti, 1 miliardo di persone ci può giocare”. A suo giudizio, però, nascono dubbi rilevanti: come usare questa tecnologia senza fare danni? E poi, com’è possibile tornare a fidarsi quando ognuno inventa qualunque cosa? Infine, quanto conta ancora ciò che impariamo con le nostre mani, ora che sapere è gratis per tutti?

Falcone ha notato come chi sfrutta l’AI va più veloce ed è più motivato. Però ha messo in guardia: questo cambiamento potrebbe trasformare davvero tanto il modo in cui interagiamo con la tecnologia. “Non decidiamo più noi, ora chiediamo e basta, sperando vada bene. Dovremo imparare a capire i risultati, non solo come sono fatti”, è la sua tesu. Un pensiero che guarda avanti, verso il prossimo passo della tecnologia: l’AI capace di agire da sola. Qui i sistemi non si limitano a rispondere, bensì scelgono come muoversi, organizzano azioni e le portano a termine senza bisogno d’aiuto.

Il mondo del software libero conta molto

Per chiudere lo spazio tra obiettivi e risultati concreti, diverse imprese italiane scelgono soluzioni tech senza barriere. A quanto emerge da un’indagine, condotta da Censuswide tra il 13 e il 17 agosto 2025, che ha coinvolto poco più di 9mila Responsabili e Direttori IT (compresi i ruoli relativi alle infrastrutture e alle infrastrutture cloud) e ingegneri AI (compresi ingegneri software in AI/ML, ingegneri NLP e LLM e data scientist) di aziende con oltre 500 dipendenti in tutta l’area Emea, (100 rispondenti erano provenienti dall’Italia), sette professionisti su 10 vedono il software libero d’azienda come un tassello chiave nell’approccio sull’AI, una quota simile a settori sentiti come urgenti come, per esempio, la protezione dati, gli ambienti cloud misti o il controllo nazionale sulle informazioni digitali.

Falcone ha affermato che norme chiare e accessibili aiutano a creare sistemi più sicuri, insieme con altri fattori. Il manager ha usato l’open source come esempio: a suo parere funziona bene per diffondere metodi efficaci, permette maggiore adattabilità, anche nei budget. Secondo una nota di Red Hat, essere autonomi e resilienti non vuol dire usare sistemi chiusi. Dipende invece da ambienti aperti. Grazie al software libero, le imprese decidono dove tenere i loro dati; decidono pure come organizzare i propri strumenti tecnologici e con quali partner lavorare. Il controllo arriva quando si coopera, non stando isolati.

L’ecosistema per superare ostacoli e accelerare l’adozione

Giampiero Cannavò, Regional Director, Head of Med & Italy Ecosystem di Red Hat, ha ripreso la questione del sistema integrato. Secondo il manager, l’AI ha bisogno di strutture accessibili e adattabili; serve formazione costante, però soprattutto attenzione a situazioni pratiche con risultati chiari. Cannavò ha fatto notare che i fornitori di cloud, insieme con i tecnici che collegano sistemi vari e ai programmatori autonomi, contano molto nelle applicazioni più evolute, trascinando tutto verso modelli facili da spostare, chiari e senza vincoli esclusivi. Per Cannavò, il percorso è evidente: gestire l’AI richiede collaborazione, dato che agire da soli significa rischiare di restare indietro.

Nelle vicinanze dell’AI, anche la questione sul controllo dei dati resta centrale. Entro un anno e mezzo circa, le imprese italiane metteranno al centro chiarezza negli strumenti, tracciabilità nelle operazioni, protezione nella catena di approvvigionamento oppure funzionamento senza interruzioni. L’aumento del lavoro con l’AI, insieme con il valore sempre maggiore dei dati, spinge a potenziare il controllo operativo; di conseguenza anche l’autonomia delle strutture diventa più marcata.

L’idea che ne esce è quella di un Paese che ha capito quanto sia importante l’AI e ora ci mette soldi senza esitare. Di contro, il livello di preparazione culturale e tecnica stenta a tenere il passo con questa spinta improvvisa. Nei prossimi anni, l’obiettivo sarà cambiare soldi spesi e prove varie in risultati concreti, mettendo d’accordo capacità diverse, informazioni, regole chiare e strutture utili. Poi, seguendo quanto dice Red Hat, agire basandosi su norme libere, gruppi che lavorano insieme e un’idea di controllo digitale fondata sulla possibilità di decidere liberamente.

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Rapporto Cnel, la meglio gioventù dice addio all’Italia

Renato Brunetta, Presidente del Cnel, presentando il rapporto L’attrattività dell’Italia per i giovani dei Paesi avanzati, ha detto: “Ci vorrebbe una rivoluzione culturale copernicana per risolvere questioni complesse come quella della denatalità e della glaciazione demografica”. E ce ne vorrebbe forse una anche per far rientrare dall’estero, dopo essere partiti – magari per un’esperienza di studio o di lavoro i circa 630mila 18-34enni emigrati tra il 2011 e il 2024. Il saldo, al netto degli immigrati, è pari a -441mila persone. Nel solo 2024 sono -61mila.

Significa che dopo aver superato i confini nazionali i giovani decidono di non far rientro, andando a spolpare le già magre fila delle nuove generazioni, sempre di più una minoranza. I giovani erano 15,2 milioni nella metà degli Anni 90 e 10,24 nel 2024 nonostante l’arrivo – ha specificato Brunetta – di quasi 2 milioni di ragazzi provenienti da Paesi a basso reddito. In assenza di nuovi ingressi, nel 2040 caleranno ancora fino a quota 8,8 milioni.

L’emigrazione più dal Nord che dal Sud

Se ne vanno in tantissimi: complessivamente gli expat 2011-24 corrispondono al 7% dei giovani residenti in Italia nel 2024. Colpisce poi che a espatriare non è solo chi proviene dalle Regioni più svantaggiate del Sud. Il 49% di chi va all’estero è di origine settentrionale, superando il 35% del Mezzogiorno. Le tre regioni con il valore maggiore sono Lombardia (28,4 miliardi), Sicilia (16,7) e Veneto (14,8). Ma del resto il Mezzogiorno, secondo i dati Svimez, tra il 2021 e il 2024 ha registrato una crescita del Pil dell’8,5%, superando la media nazionale e il Centro Nord (+5,8%). Tra la spinta del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e il potenziale della Zes si è reso più competitivo di altre parti d’Italia.

Quanto vale invece la perdita di capitale umano dovuta agli expat? Ben 159,5 miliardi secondo il Cnel, calcolando il saldo migratorio più il costo sostenuto dalle famiglie e, per la sola istruzione, dal settore pubblico, per crescere ed educare gli italiani emigrati. Sul Pil il peso percentuale è del 7,5%.

Addio ai giovani più qualificati

Uno dei nodi è che a lasciare il Paese sono i ragazzi più qualificati. “Fuga dei cervelli” è l’espressione più usata e talvolta al centro delle polemiche. Ma rispecchia i fatti: tra chi ha lasciato il Paese nel triennio 2022-24, il 42,1% è laureato, in aumento rispetto al 33,8% dell’intero periodo 2011-24. Al di sopra o vicini alla metà Trentino (50,7%), Lombardia (50,2%), Friuli-Venezia Giulia (49,8%), Emilia-Romagna (48,5%) e Veneto (48,1%). Le quote più basse si registrano in Sicilia (26,5%) e Calabria (27,2%). Non trovano sbocchi per mettere a frutto le competenze maturate, così si guardano altrove e salutano casa per mete dove saranno – forse – più valorizzati.

Il rapporto giunge anche a un’altra conclusione. Sarebbe normale il fenomeno degli expat, “perché le economie mature di per sé sono in competizione per l’attrattività”, ha osservato Brunetta. Ma sul fronte opposto il nostro Paese richiama giovani stranieri? Molto poco. L’Italia da un lato è destinataria di flussi dai Paesi più poveri, dall’altro lato non ne riceve altrettanti da Paesi avanzati. È questo che la contraddistingue in negativo, spiega il report del Cnel. “La sua scarsa attrattività è la cartina di tornasole di quei ritardi che l’Italia ha progressivamente accumulato nel corso di decenni”, ha commentato il Presidente del Cnel

Salari più alti e più prospettive di carriera

Come si esce dallo stallo? “Servono salari e prospettive di carriera più competitive, costo della vita sostenibile, investimenti in innovazione e ricerca, una nuova cultura del lavoro e della meritocrazia”, è la ricetta di Brunetta. Che parla anche di “serbatoi” da cui attingere. Come per esempio gli 1,3 milioni di giovani Not in education, employment or training (Neet) tra i 15 e i 29 anni. Una potenziale leva della modernizzazione strutturale e valoriale, per arrivare all’obiettivo di 27-28 milioni di occupati entro la fine del decennio.

E poi superare il gender gap nel mercato del lavoro e il tasso di inattività femminile tra i più alti in Europa: “Secondo l’Ocse colmare il divario – soprattutto tra le nuove generazioni – potrebbe garantire all’Italia il maggiore incremento del Pil pro capite tra tutti i Paesi europei”. Un vero booster per un’Italia che non sia più fanalino di coda. Mettere i giovani al centro. Conviene a tutti.

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50 Special, l’età del l’oro (del lavoro)

In Italia si è considerati ‘giovani’ molto più a lungo rispetto al dato anagrafico (per le Nazioni unite rientrano in questa fascia gli Under 24). Fa però eccezione il mondo del lavoro: chi ha superato i 50 anni spesso non trova un sistema pronto ad accoglierlo. Viviamo più a lungo, lavoriamo più a lungo, ma molte imprese (e anche certe persone) continuano a pensare ‘in corto’. Se un tempo si chiedeva ai profili senior di ‘lasciare spazio’ ai giovani secondo una tempistica imposta dal sistema pensionistico, oggi che il tempo di lavoro si è allungato, questo passaggio di consegne avviene senza preavviso, senza preparazione e senza programmi. Eppure i senior hanno un valore per le organizzazioni perché sono professionisti esperti, motivati e lucidi. E le aziende hanno un estremo bisogno di queste figure, anche perché il calo demografico fa già sentire i suoi effetti. Come valorizzare dunque la popolazione Over 50?

Ne parliamo nella puntata di venerdì 12 dicembre 2025 di PdM Talk, il talk show settimanale di Parole di Management che va in onda in diretta streaming ogni venerdì dalle 12 alle 13 (la diretta è visibile sul sito del quotidiano, sul canale YouTube di Parole di Management e sul profilo ESTE di LinkedIn).

In ogni puntata i rappresentanti della grande community di imprenditori e manager della casa editrice ESTE e di Parole di Management si confrontano sulle questioni di attualità – dagli avvenimenti della politica alle mutazioni della società – che hanno un interesse per chi gestisce e vive le organizzazioni.

Gli ospiti della puntata del 12 dicembre 2025:

Sebastiano Zanolli, Manager, autore, speaker, conduttore, autore del libro Collaborare a ogni età (Roi Edizioni, 2025)

Eleonora Ferri, Senior Equity Partner & Founder di W Executive, Head of W Advisory

Emanuela Matini e Isabella Vittorelli, Amarelli & Partners Consulenti del Lavoro

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Pausa pranzo a sbafo (dell’azienda)

Non è sempre facile stabilire quale sia l’orario di lavoro effettivo. Specie quando di mezzo ci sono turni che richiedono sì la disponibilità continua, ma comprendono pause – più o meno lunghe – senza svolgere mansioni. La questione è talmente scivolosa che un’impresa di autoambulanze spagnola, la Ambulancias Domingo Sau, si è dovuta rivolgere a un tribunale. Ne è scaturita una vera e propria battaglia legale a colpi di ricorsi tra azienda e sindacati.

A conclusione della vicenda, il Tribunal Supremo, la Cassazione iberica, ha chiarito che solo nel caso in cui ci sia “disconnessione totale” dal lavoro la pausa pranzo va considerata tale. Se invece, come succede per esempio negli uffici, si consuma velocemente un pasto davanti allo schermo mentre si lavora, allora non può parlarsi di vera pausa. E neppure se si è reperibili al telefono. Il problema è la retribuzione. Si ha diritto a essere pagati anche se si sta mangiando?

Si è pagati se ci si rende reperibili

I lavoratori della Ambulancias Domingo chiedevano da tempo che il momento della pausa pranzo fosse considerato come ‘presenza’. In quell’intervallo risultavano comunque reperibili e a disposizione dell’azienda, anche se non occupati a guidare l’ambulanza. Diverse sentenze avevano dato loro ragione tanto che era stato deciso che quell’ora fosse retribuita come extra.

Nel 2018, però, l’azienda ha fatto un passo indietro e ha modificato l’organizzazione del lavoro. Si era stabilito che conducenti e portantini potessero ‘staccare’ completamente per un’ora, senza obbligo di rispondere a chiamate né tanto meno alle emergenze. Erano liberi, dunque non dovevano essere retribuiti. Ma una nuova sentenza ha poi ribaltato tutto. L’azienda avrebbe dato l’ok alla pausa senza interruzioni solo per risparmiare sugli stipendi. Di qui la condanna a un risarcimento per danno morale.

La decisione farà giurisprudenza

L’ultima parola è arrivata dalla Cassazione, come ha riportato il quotidiano Vozpopuli. I giudici della Corte suprema sostengono che l’azienda ha agito nel rispetto della Costituzione, che consente di rivedere le turnazioni per ragioni di produttività e organizzazione. Quindi se non si può assicurare la ‘disconnessione totale’ e i lavoratori, seppure in standby, devono rimanere allerta per eventuali chiamate, non sono in pausa e per questo devono essere retribuiti. Viceversa, sarà una pausa, senza diritto a essere remunerati.

La decisione, secondo i media spagnoli, è destinata a fare giurisprudenza. Ci sarà un prima e un dopo per i settori nei quali è richiesta la disponibilità costante di lavoro. I casi non sono solo quelli di chi guida un’ambulanza, ma per esempio anche gli altri servizi di emergenza o la sicurezza privata. Che cosa succederà adesso?

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Tecnologia e organizzazione per la trasparenza salariale

È iniziato il conto alla rovescia all’entrata in vigore dell’obbligo di trasparenza salariale, introdotto
con la Direttiva Ue 970/2023: la data da segnare in rosso è il 7 giugno 2026 (è il giorno entro il
quale l’Italia deve recepire la norma europea)
. Ci sarebbe da correre, perché si preannuncia una
piccola rivoluzione: niente più ‘segreti’ sulle retribuzioni. Le Risorse Umane sono in fibrillazione,
perché l’obiettivo è che – entro alcuni limiti – le retribuzioni siano rese pubbliche. E l’obbligo varrà
per tutti dalle grandi alle piccole
, con tempistiche differenti.

Eppure le aziende non sembrano granché consapevoli della portata della normativa. I dati della
quarta edizione dell’Osservatorio Zucchetti HR hanno evidenziato che il 27% delle aziende
coinvolte nell’analisi è disposta a indicare esplicitamente la Ral
negli annunci di lavoro (questo è
un altro punto cruciale della norma Ue), ma appena il 3% delle altre imprese si è detta
intenzionata a farlo a breve.

A questo ritardo si somma la norma non chiara: “Per ora esistono solo le linee guida fornite dalla
direttiva, ma per l’Italia, così come per altri Paesi, manca il decreto attuativo per implementarle e
recepirle
nel proprio ordinamento”, sottolinea Francesco Pepi, Team Leader HR Digital
Transformation Consulting di Zucchetti (nella foto il garden interno del Village di Lodi, nuovo headquarter). Il risultato? “Perimetri dubbi”. Che vuol dire: “Le certezze
non sono molte
al momento”.

C’è però un’eccezione e riguarda la comunicazione esterna ed è l’aspetto più noto: “È l’obbligo per
le aziende di indicare la Ral negli annunci di lavoro e il divieto di chiedere informazioni sulla
retribuzione attuale del candidato”, prosegue il manager. La norma, in questo caso, è
inequivocabile. All’articolo 5 si chiarisce infatti che i candidati avranno il diritto di ricevere dal
potenziale datore di lavoro informazioni sulla retribuzione
iniziale o sulla relativa fascia da
attribuire alla posizione in questione, sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del
genere.

A questo proposito è bene ricordare che la direttiva nasce con lo scopo di dare finalmente
attuazione a una reale parità – retributiva e non solo – tra uomini e donne. In questo senso, si
chiede di condurre procedure di assunzione in modo non discriminatorio. In più diventerà illegale
interrogare i candidati sulle retribuzioni
percepite negli attuali o precedenti rapporti di lavoro.

La tecnologia è indispensabile per rispettare la norma

Fin qui le certezze, perché il resto della normativa è più nebuloso. “Si dovrà, per esempio, fare
chiarezza su che cosa si intenda per retribuzioni fisse e, soprattutto, variabili, che è il concetto
utilizzato dalla norma, perché bisognerà capire come valorizzare benefit, bonus e altre
componenti non fisse”, prosegue Pepi. A quel punto il confronto sarà su un terreno più ampio. E
attenzione poi a un eventuale equivoco: non si è sanzionati in automatico nel caso si riscontri un
gap salariale. “Se, per lavori uguali o di pari valore, una retribuzione individuale presenta uno
scostamento superiore al 5% rispetto alla media, spetta all’azienda giustificare il motivo di quella
differenza”.

Alla luce di queste considerazioni, le aziende dovrebbero cominciare, già da adesso, a lavorare su
questo e sugli altri obblighi nascenti. Ciò che sicuramente le organizzazioni possono fare, fin da
ora, è iniziare a valutare con quale logica raggruppare la popolazione aziendale ai fini dei confronti, e capire se sia necessario rivedere eventuali clausole di riservatezza nei contratti,
ragiona il manager. Perché il punto chiave che va chiarito per ottemperare alla direttiva è come
incasellare in cluster le retribuzioni dei dipendenti. “La norma chiede che si possano fare confronti
rispetto a colleghi con ruoli simili o di pari valore”, prosegue Pepi. Ma che cosa si intende
esattamente? Il nodo sarà proprio ridisegnare l’organico da questo punto di vista.

In questo caso la tecnologia può fornire un valido (e necessario) supporto: “Possiamo assistere le
aziende attraverso tool che sono in fase di sviluppo e che serviranno a generare i cluster e ad
analizzare al loro interno le retribuzioni e gli eventuali gap”, ammette il manager di Zucchetti. Ma
ancora, sorge l’altro vero dubbio: “Molto dipenderà dalle specifiche che verranno introdotte dal
decreto italiano: sarà in quel momento che capiremo se alle organizzazioni verrà lasciato un
margine di interpretazione gestionale oppure se saranno previste indicazioni più stringenti”. Solo
allora si potrà comprendere come interpretare e applicare la norma nel dettaglio.

Non va dimenticata un’altra questione centrale. L’obbligo di rendicontazione, segnalato all’articolo
9 della Direttiva Ue e in questo caso valido solo per le aziende con più di 100 dipendenti e alcune
limitazioni per quelle tra 100 e 250 dipendenti: “Il Legislatore dovrà chiarire tutti gli adempimenti
riguardo le comunicazioni agli enti di controllo”. Perché di nuovo, l’assenza di criteri esatti genera
preoccupazione: “I rischi che corrono le imprese coinvolte sono sanzioni e contenzioso”.

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PMI, voucher per cloud e cybersecurity

Un nuovo impulso alla digitalizzazione delle imprese italiane. La novità è arrivata dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) che, con un decreto firmato dal Ministro Adolfo Urso, ha approvato un voucher da 150 milioni di euro dedicato all’acquisizione di servizi di cloud computing e cybersecurity.

L’intervento, sviluppato anche sulla base di una consultazione pubblica, si rivolge a Piccole e medie imprese (PMI) e lavoratori autonomi che intendono potenziare o rinnovare la propria dotazione tecnologica, purché dotati di una connettività Internet con velocità minima di 30 Mbps in download.

Della dotazione complessiva, 71 milioni di euro sono destinati alle imprese con sede in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, confermando l’attenzione del Ministero per il sostegno allo sviluppo del Mezzogiorno.

Uno stimolo per rilanciare la competitività

Le spese ammissibili coprono un ampio ventaglio di servizi, considerati oggi essenziali per la competitività delle imprese e la protezione dei dati. Il contributo riguarda: soluzioni hardware e software di cybersecurity: firewall, router e switch sicuri, antivirus e antimalware, sistemi di monitoraggio delle reti, crittografia, Siem, soluzioni di Vulnerability management; servizi cloud infrastrutturali: storage, backup, database; servizi cloud SaaS: software gestionali, contabilità, HR, produttività, contenuti digitali, ecommerce, CRM; Servizi accessori: configurazione, monitoraggio, supporto continuativo.

Gli acquisti possono essere effettuati direttamente (fino a 12 mesi), tramite abbonamento (fino a 24 mesi) o con modalità mista. La spesa minima per accedere al contributo è di 4mila euro. Le agevolazioni rientrano nel regime ‘de minimis’ e sono concesse come contributo a fondo perduto fino al 50% delle spese, con un tetto massimo di 20mila euro, erogabili in una o due soluzioni.

Solo i fornitori iscritti nell’elenco predisposto dal Mimit possono offrire i servizi acquistabili tramite il voucher. Le domande di iscrizione all’elenco sono aperte dal 4 marzo 2026 al 23 aprile 2026. Il Ministero, con il supporto di Invitalia e Infratel Italia, ha intenzione di valutare le richieste seguendo l’ordine cronologico, comunicando l’elenco dei soggetti ammessi entro 60 giorni dalla chiusura dello sportello. Un successivo decreto definirà i tempi e le modalità di presentazione delle domande da parte delle imprese beneficiarie.

La cybersecurity è una priorità assoluta

Non è passato inosservato che uno degli ambiti che il Mimit vuole potenziare è la sicurezza digitale: negli ultimi anni, la rapidissima evoluzione delle minacce informatiche ha reso evidente si tratta di una questione non più riservata alle grandi aziende. Ransomware sofisticati, attacchi di phishing potenziati dall’Intelligenza Artificiale e intrusioni mirate colpiscono sempre più spesso imprese di ogni dimensione, spesso sfruttando errori umani o infrastrutture obsolete.

La sicurezza, dunque, non può più essere trattata come un prodotto da installare una volta e dimenticare, ma come un processo continuo, che combina tecnologie avanzate, aggiornamenti costanti e una crescente cultura della prevenzione. Per fare il punto su rischi, vulnerabilità e strategie di protezione, il quotidiano online Parole di Management, edito da Edizioni ESTE, organizza il 10 dicembre 2025 la tavola rotonda dal titolo “Cybersecurity: proteggere le aziende nell’era delle minacce digitali avanzate”.

L’evento offre un quadro aggiornato sul tema della sicurezza informatica, con approfondimenti sul panorama attuale delle minacce cyber; sugli errori più comuni che le imprese commettono e sulle strategie operative per difendere dati, infrastrutture e persone.

Un appuntamento approfondito nello Speciale di Parole di Management, per comprendere come applicare un modello di sicurezza realmente efficace, soprattutto in vista delle nuove opportunità di finanziamento.

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Se potessi avere… un lavoro

I lavoratori sono diventati meno choosy? La domanda ha origine osservando quanto sta accadendo negli Usa dove le aziende stanno licenziando con più intensità rispetto a poco tempo fa e siccome le persone non trovano facilmente lavoro… si accontentano di quello che passa il convento, in particolare dei lavori che nessuno vuole (o voleva) più fare.

La realtà è che il mercato occupazionale procede a rilento. Se prima c’è stata la Great resignation post Covid e poi il job hopping (cioè il passaggio da un lavoro all’altro), adesso si è nella fase “low hire, low fire economy. Stagnazione in contemporanea, però, all’annuncio del via libera ai grandi licenziamenti. Le aziende, infatti, sembrano aver perso la paura di licenziare.

Tutto questo, però, sta prendendo una piega imprevista. Per posizioni fino a poco tempo fa snobbate per basse paghe e condizioni non proprio ottimali – per esempio supplenti per la scuola o guardie carcerarie – l’offerta di lavoro adesso è in netto rialzo. “Quando squilla il telefono penso sempre a un nuovo cliente, ora invece ogni volta è qualcuno che cerca lavoro: qualcosa di mai visto prima”, ha detto, in una intervista al Financial Post Marcus Rush, capo della AQC Traffic Control, azienda specializzata in servizi di controllo del traffico e sicurezza delle zone di lavoro. Fino a un paio di anni fa, per intendersi, arrivavano una decina di application a settimana per i ruoli proposti. E si tratta di attività non proprio appetibili: per esempio si è esposti a ogni tipo di intemperia, magari per 12 ore sotto il sole. Adesso, invece, le richieste sono diventate circa 80 a settimana.

Troppo tempo per trovare lavoro

Il motivo del fenomeno è da ricercare nell’andamento del mercato del lavoro nordamericano. Da un sondaggio condotto da Bloomberg News è emerso come circa la metà degli occupati ritenga che occorrerebbero quattro mesi o più per ricollocarsi in un ruolo dello stesso livello attuale qualora lo perdessero. Il tasso di disoccupazione resta basso, attorno al 4,3%, ma il problema è uscire dalla disoccupazione: circa il 26% di chi ci è passato ha impiegato più di sei mesi a ritrovare un posto, uno dei dati peggiori degli ultimi decenni, confermano dall’Ufficio di statistiche del lavoro Usa. “Nel 2022 era impossibile trovare candidati, adesso è l’opposto”, ha assicurato Rick Hermanns, Responsabile alla HireQuest Inc, società di ricerca del personale.

Una delle storie riportate è quella di Danielle Norwood, 53enne conduttrice radiofonica. Dopo la chiusura della stazione radio, ha lavorato come conducente Uber e inviato decine di curriculum. Adesso sta per ricevere la certificazione come ‘supplente’. A renderla entusiasta è la paga: dai 140 ai 220 dollari al giorno. Soldi che fanno la differenza. Ma il fenomeno non riguarda solo l’istruzione. Anche per fare i netturbini la richiesta è alta.

La Waste Management Inc ne è la riprova. “Non ci sono mai stati così pochi turnover”, hanno affermato fonti aziendali. Difficile che una posizione rimanga vacante per molto tempo. Accade perfino in settori impensabili come nel recupero degli scarti, dove le persone devono selezionare materiali rovistando con le mani. Ci sono almeno il 50% di richieste in più, ha fatto sapere l’agenzia di recruiting HireQuest. E si sono ridotte le posizioni vacanti: “Adesso riusciamo a gestire le richieste, cosa che non succedeva fino a tre anni fa, quando ci saremmo sentiti sotto pressione se un’azienda ci avesse chiamato per chiederci 30 nuove risorse”.

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