Oltre la tecnica, la rivoluzione educativa imposta dall’AI
Preparare la società a convivere con l’Intelligenza Artificiale (AI) significa innanzitutto ripensare la formazione delle nuove generazioni. Non si tratta soltanto di acquisire familiarità con strumenti digitali sempre più sofisticati, ma di coltivare spirito critico, creatività e capacità di adattamento, competenze indispensabili per governare trasformazioni tecnologiche destinate a evolvere con rapidità crescente. La scuola e i sistemi educativi, da soli, non possono sostenere un cambiamento di tale portata: serve una responsabilità collettiva e istituzionale capace di prevenire rischi ormai evidenti, dall’ampliamento dei divari socioeconomici all’esclusione digitale, fino ai possibili stravolgimenti occupazionali.
Questa esigenza è acuita dal fatto che l’AI non è più soltanto uno strumento tecnico di elaborazione o previsione, ma un agente che partecipa in modo attivo ai processi decisionali. Si passa così da una visione meramente strumentale a una prospettiva dialogica, in cui la conoscenza viene co-costruita da uomo e macchina.
Un cambio di paradigma che ha guidato le riflessioni della tavola rotonda del Festival del Futuro Education 2025, dedicato quest’anno al tema “Intelligenza responsabile: dall’Uomo vitruviano all’Uomo del silicio”. Coordinata da Chiara Lupi, Direttrice responsabile di MIT Sloan Management Review Italia (rivista di Edizioni ESTE promotrice dell’evento), il confronto, venerdì 28 novembre, ha visto la partecipazione di Marco Bentivogli, Co-fondatore di Base Italia (associazione che promuove iniziative di studio e ricerca in materie economiche, giuridiche e sociali), Massimo Bottacin, Chief People Officer di Bauli (azienda alimentare italiana di prodotti da forno), Camilla Brossa, Ceo di Caia Consulting (agenzia di consulenza per l’innovazione), Marta Cenzi, Responsabile Area istituzionale Fondazione Cariverona (fondazione di origine bancaria senza scopo di lucro), Giovanni Costa, Professore emerito Organizzazione aziendale Università degli Studi di Padova.
Da hard a soft, imparare ad apprendere
Proprio Costa ha ricordato come uno dei nodi cruciali riguardi il tempo di obsolescenza delle competenze, oggi più rapido del tempo necessario per apprenderle. Concentrarsi solo sulle tecnologie o sull’efficienza immediata significa rischiare di diventare superati ancor prima di aver padroneggiato gli strumenti. Da qui l’urgenza di puntare sulle metacompetenze: il metodo deve precedere la tecnica, perché la tecnica invecchia, mentre la capacità di rigenerare e aggiornare il proprio sapere resta essenziale. Imparare, oggi, implica anche saper disimparare, liberandosi di automatismi inadeguati e coltivando uno spirito sperimentale, libero da allarmismi e rigidità. È un atteggiamento “laico” verso l’AI, che permette alla creatività umana di rimanere al centro, anche quando si tratta di mettere in discussione le risposte generate dalle piattaforme conversazionali.
Questa lettura si integra con l’analisi proposta da Bentivogli, che invita a osservare il percorso storico delle tecnologie, distinguendo due grandi età delle macchine: la prima ha superato i limiti fisici dell’uomo, la seconda, quella attuale, ne sfida i limiti cognitivi. È proprio in questo passaggio che l’impatto dell’AI appare più evidente nelle professioni a maggiore contenuto analitico, mentre quelle basate su capacità senso-motorie risultano meno esposte. Il lavoro diventa così il crocevia tra transizione demografica, trasformazione tecnologica e sostenibilità ambientale. Una complessità da comprendere alla luce di un altro fenomeno: molte aziende non assumono persone per ruoli che, almeno in parte, sono già svolti da algoritmi. Un approccio errato di AI first che, se male interpretato, rischia di impoverire le competenze umane e di produrre deskilling. Per evitarlo, occorre restituire protagonismo alle persone e investire su abilità nuove.
L’apprendimento diventa personalizzato e inclusivo
Se questo è il quadro, il tema delle competenze torna con forza nel ragionamento di Bottacin, secondo cui la formazione del futuro non potrà più limitarsi alle tradizionali logiche di upskilling e reskilling. Cambierà l’atteggiamento stesso verso l’apprendimento: la differenza non sarà dettata dalle competenze tecniche, ma dalla qualità umana. La curiosità diventerà un antidoto decisivo contro la pigrizia cognitiva, acceleratore dell’obsolescenza personale. In un mondo in cui l’AI è un compagno di lavoro, non sarà indispensabile saper programmare, ma sarà fondamentale saper interagire con gli strumenti e, soprattutto, valorizzare ciò che rende unico l’essere umano.
È in questa direzione che si colloca anche la personalizzazione dell’apprendimento, una delle aree in cui l’IA può offrire un contributo cruciale. Brossa ricorda come i percorsi adattivi consentano di rispondere alle specificità cognitive degli studenti, favorendo un apprendimento più inclusivo, utile anche per chi vive disturbi specifici. Comprendere il funzionamento degli strumenti tecnologici diventa così rilevante non solo per le professioni digitali, ma anche per mestieri ad alta componente manuale: un parrucchiere, ad esempio, può utilizzare l’IA per generare contenuti, immagini o video utili a valorizzare il proprio lavoro.
Tutte le categorie professionali sono chiamate a confrontarsi con questi cambiamenti. E la rapidità dell’impatto rende ancora più necessario poter contare su istituzioni educative credibili. Cenzi invita a superare l’atteggiamento passivo e a sperimentare il cambiamento con creatività e spirito innovativo. In questo percorso, il dialogo intergenerazionale può diventare una risorsa strategica: i giovani portano una naturale alfabetizzazione digitale, mentre le generazioni più esperte offrono visione e profondità. Unire questi sguardi significa immaginare un futuro più solido e sostenibile. Anche per questo, dal 2026, nascerà in Fondazione Cariverona uno Young Advisory Board, un segnale concreto della volontà di riportare i giovani al centro dei processi decisionali. Perché preparare le nuove generazioni alla sfida dell’AI significa non solo sviluppare competenze, ma costruire una cultura del cambiamento. E il cambiamento, oggi, è esso stesso una forma di apprendimento continuo.
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